Francesco Pirone: L’industria del calcio in Italia. Fragilità e rischi del modello di crescita

| 8 Giugno 2015 | Comments (0)

 

Pubblichiamo  questa analisi   documentata e di attualità  di Francesco Pirone[1]

1. Le radici del neo-calcio

Basta seguire per un po’ la rassegna stampa sportiva per accorgersi che le cronache calcistiche sono ormai indissolubilmente intrecciate a un discorso sui soldi. Interessi economici che travalicano i confini del sistema sportivo – network televisivi, società di scommesse, sponsor, fondi d’investimento, banche e anche qualche speculatore finanziario – hanno sempre più accresciuto la loro influenza, condizionando lo sviluppo del calcio. Oggi non è più possibile comprendere questo sport, senza considerare le logiche che muovono gli interessi economici nel settore e senza avere gli strumenti per analizzarle. Gianni Mura ha scritto che di soldi: «per molto tempo s’è parlato troppo poco, nello sport, e quando i soldi sono diventati la componente principale del cocktail eravamo impreparati, noi addetti ai lavori. […] Eravamo pateticamente impreparati perché nel bel mezzo di mutazioni calcistiche epocali balbettavamo le nostre litanie-coperta di Linus»[2]. Dieci anni dopo queste parole, c’è sicuramente maggiore preparazione negli “addetti ai lavori” e la consapevolezza che lo sviluppo economico del calcio ha creato una nuova industria che non può essere gestita senza un’adeguata preparazione economica e manageriale. Legittime e comprensibili sono le prospettive romantiche di un ritorno ad un calcio purificato dalla logica commerciale e animato soltanto dallo spirito agonistico della competizione sportiva, sia quando sono espresse dal tifoso comune, sia quando sono al centro delle critiche più radicali dei gruppi di tifosi organizzati.

La comprensione del calcio professionistico richiede, quindi, una conoscenza profonda della logica economica di questo settore e l’impiego di strumenti teorici e concettuali all’altezza dei processi in atto che si intrecciano e si rispecchiano nei cambiamenti più generali dell’economia mondiale. In linea con i caratteri del nuovo capitalismo postindustriale globalizzato, l’economia del calcio promuove la terziarizzazione della struttura produttiva, l’internazionalizzazione dei processi economici, la crescente finanziarizzazione e soprattutto la centralità dello sviluppo delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione[3]. Si tratta processi che hanno richiesto una trasformazione radicale di tutti gli attori istituzionali ed economici che operano nel settore a partire dalle società di calcio che sono diventate delle aziende “multibusiness”[4], cioè imprese che oltre a realizzare lo spettacolo sportivo, sono impegnate in diverse altre attività economiche: commerciali, immobiliari, finanziarie e di comunicazione, tanto per citare le più rilevanti. Si tratta, quindi, di un settore economico tutt’altro che marginale, non solo per la dimensione quantitativa che ha assunto, ma per la capacità di incorporare nel processo di valorizzazione economica dello sport i principali processi sociali emergenti dall’economia contemporanea.

Lo sviluppo economico del calcio professionistico negli ultimi venticinque anni è stato così rapido e così rilevante da spingere diversi studiosi a parlare di “mutazione genetica”[5] e di allontanamento progressivo dai valori e dalla logica sociale dello sport. Le trasformazioni alla base di tale mutazione si osservano chiaramente già nei primi anni Novanta − in Italia anche per la spinta data dall’aver organizzato i Campionati Mondiali di Calcio Fifa «Italia 90» − quando si sviluppa rapidamente lo spettacolo televisivo del calcio, attraverso agli ingenti investimenti nei principali campionati europei da parte dei principali operatori televisivi commerciali che promuovono le forme emergenti di TV a pagamento e che trovano proprio nel calcio il veicolo più potente di diffusione di nuove pratiche di consumo televisivo. A fronte del nuovo ingente flusso di risorse che le società televisive sono disposte a immettere nelle società di calcio attraverso l’acquisto dei diritti di trasmissione televisiva, l’intera industria del calcio è chiamata a una profonda “rifondazione” istituzionale attraverso due principali processi: l’aziendalizzazione dei club e la trasformazione del calcio in uno spettacolo televisivo commerciale. Come ha scritto Vittorio Dini, da quel momento il calcio significa «sempre più “display” sempre meno “play”»[6]. Il risultato è stato, quindi, l’incorporazione della logica economica dello show business in quella sportiva tradizionale che ha portato a un intreccio inestricabile tra calcio e tv, in alcuni casi con forme d’integrazione verticale e conflitti d’interesse, attraverso la costituzione di gruppi proprietari sia di squadre di calcio sia di network televisivi. Caso emblematico è quello del gruppo Mediaset e di A.C. Milan di Silvio Berlusconi. Questo è quello che viene definito come “neocalcio”[7].

Il risultato di tale rifondazione è una rapida crescita del valore economico complessivo del calcio professionistico: nel caso italiano, ad esempio, l’aumento del valore del volume d’affari generato dai campionati professionistici triplica dal 1991 al 2011, passando da 455 milioni euro a 1,5 miliardi euro[8]. Sono pochi i settori economici che nello stesso periodo hanno registrato risultati analoghi. Ma è l’intero sistema di relazioni sociali, professionali e politiche che avvolge l’attività sportiva a risultate profondamente trasformato, comprese anche il ruolo e le pratiche del tifoso. La diffusione dello spettacolo calcistico in TV crea, infatti, una nuova figura sociale di massa: il “teletifoso”. Ad esempio nel corso della stagione 2012-2013 di Serie A la media di spettatori televisivi a pagamento – Sky e Mediaset Premium insieme – è stata di circa 8,3 milioni per giornata[9]. L’effetto iniziale della diffusione del calcio in TV è stata la rapida riduzione della presenza di pubblico allo stadio per assistere allo spettacolo dal vivo; questo effetto si manifesta con forza fino a metà degli anni Novanta, poi si riduce drasticamente portando ad un equilibrio abbastanza stabile nel tempo di pubblico televisivo e di quello da stadio. Oggi il calcio in TV e quello allo stadio, anche se interdipendenti, si presentano come spettacoli distinti, ognuno con una propria specifica domanda e un nucleo stabile di pubblico. Le società di calcio, le leghe e le federazioni si muovono avendo di fronte queste due macro-aree di tifo che hanno differente e variabile peso economico, ma anche diverso significato sociale e influenza politica.

D’altra parte, se è vero che lo sviluppo economico del calcio professionistico ha prodotto una sua “mutazione genetica”, non è però cambiata la base del suo successo. L’industria del calcio, infatti, sfrutta la capacità tradizionale di questo gioco di generare delle passioni nel suo pubblico, oltre che nei praticanti. La novità sta nelle nuove modalità di marketing che le società di calcio e le leghe impiegano per mettere a valore in maniera più estesa e più intensa la capacità tradizionale del calcio di appassionare le persone e, quindi, di catalizzare la loro attenzione. Lo spettacolo calcistico si è molto modificato nel tempo, in parte anche il gioco ha subito delle trasformazioni per aumentarne la spettacolarizzazione, ma la storia del calcio moderno[10] − soprattutto nei paesi industriali europei dove è stato praticato e seguito in maniera più intensa − rivela che questo sport ha avuto sempre la capacità di catturare l’attenzione di masse estese e diversificate di persone. Ciò ha reso questo sport da sempre un’attività di interesse economico, ma oggi assume una rilevanza crescente poiché i processi di produzione del valore si basano in misura maggiore sulla cattura dell’attenzione individuale che è risorsa finita e, quindi, preziosa[11].

 

2. La struttura del business network

Il calcio è un sistema più complesso e articolato della sua economia e comprende componenti non di mercato di rilevanza cruciale nel processo di valorizzazione economica di questo sport. Assumendo una prospettiva socio-politica[12], infatti, il sistema del calcio va esteso a diverse altre attività rilevanti per comprendere lo sviluppo dell’industria del calcio professionistico, perché in questo ambito, ad esempio, si producono le risorse simboliche e l’interesse che la nutrono. Si pensi alle attività delle organizzazioni nonprofit e quelle gestite da istituzioni pubbliche che organizzano il calcio non professionistico e amatoriale: in Italia, ad esempio, stando ai dati ufficiali del Coni aggiornati al 2012, il calcio è lo sport più praticato con 1,1 milioni di giocatori tesserati e più di 14.000 squadre registrate; rilevanza ancora maggiore ha la pratica informale del calcio – in Italia coinvolge circa 4,5 milioni di persone[13] – che è una delle variabili fondamentali per comprenderne la popolarità e l’interesse che suscita così diffuso e radicato.

Anche, però, limitandosi soltanto alla dimensione di mercato del calcio, bisogna affrontare un problema relativo ai confini del settore economico. Generalmente nell’economia del calcio si riduce l’osservazione all’insieme delle società e delle organizzazioni economicamente rilevanti (le Leghe e le Federazioni) che organizzano e realizzano le competizioni sportive. Si tratta di una scelta generalmente condivisibile, ma che porta a valutazioni in alcuni casi fuorvianti, in quanto sottovaluta che questo settore economico sempre più si è andato integrando in una catena del valore[14] più ampia di quella sportiva. Cioè, il calcio è diventato un anello di una catena di processi economici che si sviluppano in una filiera produttiva che, a monte, ha una serie di fornitori di beni e servizi per la realizzazione delle competizioni calcistiche, e a valle aziende che acquistano lo spettacolo calcistico per realizzare altri prodotti come ad esempio le trasmissioni televisive. In molti casi i risultati economici – spesso le perdite e l’indebitamento – assumono un valore diverso se si osserva nel suo insieme la catena del valore dello spettacolo del calcio. La stessa regolamentazione e la governance del settore assume dei confini strettamente limitate a società di calcio, leghe e istituzioni sportive, su scala nazionale. La complessità del sistema si complica se poi si considera anche il peso crescente di investitori finanziari internazionali, per ora poco orientati all’investimento diretto in Italia, e di operatori economici internazionali sia nel campo dei diritti d’immagine e Tv, sia nel campo dei trasferimenti dei calciatori.

Anche tornando alla sola componente sportiva, il sistema calcio costituisce un business network, cioè una rete di attori ed interessi economici interdipendenti: i professionisti del calcio (atleti e tecnici), i tifosi e il pubblico sportivo, le organizzazioni sportive in senso stretto (società, Leghe e Federazioni), l’insieme degli investitori e l’indotto industriale di servizi e manifattura. Questo schema ci consente di evidenziare che la rilevanza economica del calcio va misurata anche per la domanda di beni e servizi che esprime: per esempio l’equipaggiamento tecnico-sportivo e tutta una vasta gamma di servizi finanziari, logistici, medici, informativi ecc. In questa prospettiva non sono disponibili stime puntuali e aggiornate del valore complessivo del sistema calcio. Si consideri, tuttavia, che per i campionati professionistici nella stagione 2012-2013 – Serie A, Serie B, Lega Pro 1 e 2 – il valore della produzione è stato di 2,7 miliardi di euro, per una perdita netta del valore di 310 milioni di euro[15]. In teoria, comunque, sulla base degli studi esistenti[16] per l’Italia si può verosimilmente assumere che il valore aggiunto totale del sistema-calcio sia prodotto per due terzi nell’ambito dell’indotto di beni e servizi domandati dalle società di calcio, mentre meno di un terzo sia la parte riconducibile all’industria calcistica. In termini pratici questo significa che per ogni euro di valore aggiunto prodotto da una società di calcio, se ne producono altri due nell’ambito delle imprese da cui essa acquista beni e servizi.

 

3. La regolamentazione finanziaria europea e l’arretramento italiano

Il modello di crescita economica del calcio professionistico italiano ha prodotto uno sviluppo squilibrato delle società di calcio, evidenziato sinteticamente nell’insieme, cioè senza considerare le singole società, dalla ridotta capacità di produrre redditività diretta e da un eccessivo indebitamento. Si tratta di un modello di crescita non sostenibile come hanno già dimostrato negli anni passati i diversi fallimenti di società di vertice − ultimo, in termini cronologici, è stato il Parma F.C. nel campionato di Serie A 2014-2015  − e più di un’occasione la necessità dell’intervento pubblico a sostegno del settore.

Si tratta anche di un modello di crescita che si mostrato subito non compatibile con la più recente regolamentazione Uefa, concordata su scala europea, rappresentata in particolare dalle norme sul Fair Play finanziario[17] che si inquadrano nel più generale processo europeo di regolazione neoliberale dei mercati[18]. Nelle analisi della Uefa, i forti squilibri economici sono stati l’effetto di comportamenti competitivi che hanno fatto leva sull’indebitamento e la finanza creativa (spesso definiti “doping finanziario”) al fine di raggiungere il successo sportivo anche al costo di sacrificare la solidità economica della società. L’intervento settoriale della Uefa è mirato a tutelare la sostenibilità a lungo termine del calcio europeo. La normativa prevede che le licenze UEFA − che consentono la partecipazione alle ambite competizioni europee che procurano la quota più rilevante di risorse per le società di calcio − siano vincolate a regole di condotta finanziaria, tra le quali il pareggio di bilancio, l’assenza di aiuti di stato e il rispetto di rigidi parametri di sostenibilità dell’indebitamento. Dal calcolo del pareggio di bilancio sono escluse spese “virtuose” per vivai e infrastrutture materiali (stadi, centri sportivi, ecc.), la prima per la valorizzazione dei giovani talenti calcistici, la seconda per irrobustire lo stato patrimoniale delle società e alimentare attività in grado di garantire la differenziazione dei ricavi e ridurre la dipendenza dalla vendita dei diritti Tv. Il monitoraggio dei club è iniziato dalla stagione 2010/2011 e, fino alla stagione 2013/2014, è stata ammessa una perdita complessiva dei club fino a 45 miliardi di euro; tale soglia è stata ridotta a 30 milioni per il triennio in corso, ma tutti club dovranno arrivare al pareggio di bilancio nel 2018[19]. Va osservato che la regolamentazione del Fair Play Finanziario conferma l’adesione della Uefa al cosiddetto “modello europeo” di sport[20] ed è basata sull’idea che la buona condotta economica delle società porterà in equilibrio l’industria europea del calcio. Tuttavia, come evidenzia la stessa teoria economica, questo modello di regolazione, da una parte, non è in grado di garantire l’equilibrio competitivo e, anzi, come si osserva già con chiara evidenza nelle competizioni europee e nei campionati nazionali sta portando ad una polarizzazione dei valori sportivi e della forza economica tra un nucleo rispetto di società di vertice e tutte le altre. D’altra parte, da punto di vista strettamente finanziario, in questo modello di regolazione il rischio di accumulare gravi perdite economiche e compromettere la stabilità delle società di calcio è molto alto, poiché i campionati mantengono una struttura del tipo che il “vincitore prende tutto” (winner-take-all markets[21]). Il punto cruciale è lo scarto tra il risultato atteso e quello realizzato, considerato che esiste un grado ineliminabile di incertezza nei risultati sportivi. Esiste, infatti, un rapporto di causazione tra capacità di spesa e risultati sportivi[22], tuttavia, spendere non garantisce sempre la vittoria. Un dato obiettivo può essere raggiunto da una (vittoria) o altre, poche, squadra (piazzamenti), tutte quelle che avranno investito per quei risultati e non li avranno raggiunti, avranno un ritorno economico più basso delle aspettative e ciò accresce il rischio di perdite economiche che portano all’indebitamento e/o alla necessità di ricorrere a nuovi investitori.

Pur all’interno di analoghi limiti europei, i sistemi calcistici nazionali hanno risultati economici significativamente differenti: l’industria per dimensione più rilevante resta quella del calcio inglese, ma con importanti squilibri economici e sportivi. Il sistema tedesco, anche a seguito di un programma di sviluppo nazionale[23], è quello invece che mostra maggiore solidità ed equilibrio, rinforzato dai risultati sportivi recenti, e che in prospettiva appare indicare delle soluzioni di governance economica in grado di offrire maggiore sostenibilità all’industria del calcio. L’industria italiana del calcio, invece, si presenta con un patrimonio ridotto, un elevato indebitamento e con costi che annualmente superano i ricavi, producendo anno dopo anno nuovi deficit da ripianare.

A fronte di fatturati crescenti si sono registrati anche costi sempre più elevati. Le informazioni economiche più aggiornate selle squadre di Serie A in Italia[24], riferite alla stagione 2012-2013, registrano un valore della produzione di 2,3 miliardi di euro con risultato netto in perdita per 200 milioni di euro. Osservando i risultati economici per un periodo più lungo, si rileva che dal 2007 al 2012 sommando il deficit deficit annuale si arriva ad un valore pari a 1,2 miliardi di euro, anche se dalla stagione 2011-2012 si osserva una riduzione del deficit aggregato annuale. Anche altri grandi campionati europei, nell’insieme, fanno registrare deficit rilevanti, ma è anche vero che fa eccezione la Bundesliga, in attivo grazie ad un modello di crescita efficiente ed equilibrato programmato con la Deutscher Fußball-Bund (Dfb) a partire dal 2001, dopo i deludenti risultati della nazionale di calcio al campionato europeo Uefa Euro 2000.

Per l’Italia oltre al deficit, lo squilibrio si osserva nello stato patrimoniale attraverso soprattutto il livello di indebitamento: nel periodo 2007-2013, infatti, l’indebitamento accumulato è stato di 2,9 miliardi di euro, con una crescita del 56%. Si tratta di un valore critico, considerato che il fatturato annuale ha un valore pari a circa il 50% dell’indebitamento, mentre per la Bundesliga il valore prodotto annualmente è oltre due volte il valore del debito.

Nel frattempo, però, il sistema-calcio italiano è diventato meno attrattivo in comparazione con quello inglese, spinto – non senza squilibri – dalla Premier League, e con quello tedesco, basato sulla ben più equilibrata Bundesliga. Sono calati anche i risultati sportivi delle squadre italiane − nonostante i risultati che si sono registrati nell’ultima stagione 2014-2015 − che come dimostra la ricerca econometrica[25] sono correlati con alcuni parametri economici e finanziari; in particolare è stato dimostrato che una spesa maggiore per stipendi è correlata positivamente al successo sportivo che è la condizione necessaria per incrementare i ricavi. Nel suo insieme il calcio italiano attira minori investitori diretti esteri ed ha un grado di internazionalizzazione limitato, soprattutto se confrontato con il calcio inglese, ma anche a quello spagnolo, e ciò comporta un vincolo alla crescita dei ricavi sia dalla vendita dei diritti media, sia dalle attività di merchandising, sponsorship e advertising.

 

4. I limiti della capacità di produrre ricavi

I principali limiti economici del settore calcio in Italia emergono attraverso l’analisi del conto economico aggregato delle società di Serie A[26]. In primo luogo, la gestione ordinaria evidenzia tre limiti principali. Il primo riguarda la forte dipendenza dei ricavi dai proventi della vendita dei diritti Tv sul mercato nazionale. Guardando più nel dettaglio i dati riferiti ai cinque principali campionati europei (oltre all’Italia, Inghilterra, Spagna, Germania e Francia), si osserva che il campionato di Serie A è quello dove i ricavi dalla vendita dei diritti media – un miliardo a stagione per il periodo 2012-2015 – hanno l’incidenza percentuale più elevata (56,8%) a causa di una ridotta diversificazione dei ricavi. Questo determina una maggiore dipendenza del calcio professionistico dal “cartello” dei due network televisivi a pagamento presenti sul mercato domestico, vista anche la ridotta incidenza del valore dei diritti TV internazionali[27]. Il secondo limite riguarda la perdita di attrattività dello spettacolo dal vivo allo stadio e la riduzione dei ricavi del match day. Le squadre della Serie A ottengono un valore medio dei ricavi da spettatori per società più basso rispetto agli altri quattro grandi campionati europei, con una incidenza inferiore sul totale dei ricavi dei club e un ricavo unitario per spettatore rimasto invariato dal 2003 al 2011. La “fuga dagli stadi” è un fenomeno italiano che non si riscontra negli altri campionati europei di vertice. Entrando nel dettaglio dei dati comparati internazionali riferiti alla stagione 2011-2012, i livelli di pubblico dal vivo più elevati li registrano le società di calcio tedesche (oltre 16 milioni di spettatori in 352 incontri) a cui si avvicinano le squadre della Premier League che giocano però più incontri stagionali (16,2 milioni di spettatori in 473 incontri). La diversa capacità di attrazione del pubblico allo stadio da parte del calcio tedesco e inglese è, inoltre, espressa dall’indicatore del riempimento percentuale degli impianti: mentre per le squadre di Premier League e Bundesliga si arriva al 90%, in Italia ci si ferma al 53%. Vale a dire che le società di calcio italiane in una stagione riescono a sfruttare poco più della metà della capacità degli impianti. Il terzo limite riguarda l’insufficiente sviluppo delle attività di merchandising, sponsor, partenership commerciali e sfruttamento dei new media. Ciò evidenzia un’efficacia ancora limitata delle strategie messe in campo per diversificare le fonti di ricavo e, allo stesso tempo, l’esistenza di vincoli a tali strategie che possono essere ricondotte ad infrastrutture inadeguate (riferito in particolare gli stadi di calcio), ad inerzie manageriali e a una sottocapitalizzazione che limita gli investimenti e l’innovazione. Guardando all’estero si osserva che la capacità di produrre ricavi da attività commerciali è molto più elevata, in particolare le squadre della Bundesliga hanno prodotto 816 milioni di euro nel 2011 − un valore che segna una crescita del 46% rispetto a sette anni prima  − con un’incidenza media del 39% su totale delle entrate. Nel caso delle squadre di Serie A i ricavi complessivi per questa via si attestano a soli 302 milioni di euro.

Passando all’analisi della gestione straordinaria emergono due limiti molto rilevanti per la sostenibilità economica. Il primo riguarda il ridotto patrimonio immobiliare, a cominciare dal ridotto numero di società che hanno uno stadio di proprietà e dei centri sportivi. Mentre il secondo limite riferisce del ritardo complessivo, con rilevanti eccezione di alcune società, nello sviluppo dei settori giovanili, dei talent scouting e di misure di promozione e valorizzazione dei potenziali di sviluppo di giovani calciatori di talento.

Lo stadio di proprietà, oltre ad assicurare solidità patrimoniale alle società, ha aperto nuove opportunità di business che sono precluse con gli attuali stadi italiani – con l’eccezione più nota del Juventus Stadium di Torino – che sono di proprietà pubblica e risultano vecchi e di concezione superata. Sull’obsolescenza economica degli stadi costruiti prima degli anni ’90 c’è ormai convergenza di valutazione[28], come pure c’è ampia ricerca di marketing e diversi esempi concreti[29] che mostrano le potenzialità commerciali degli impianti di nuova concezione che si basano sull’idea di includere nello stadio attività e servizi commerciali diversificati e integrati con l’economia locale; l’obiettivo è di intensificare lo sfruttamento economico della struttura, estendendo il tempo di utilizzo dell’impianto anche in assenza dello spettacolo calcistico e anche con spettacoli ed eventi di altra natura, attirando allo stadio nuove fasce di pubblico e accrescendo la capacità totale dell’infrastruttura di produrre valore economico. Nonostante gli interventi legislativi in materia[30], la ristrutturazione e la costruzione di nuovi stadi in Italia sconta, però, la complessità della governance urbana e le inerzie politiche amministrative, ma soprattutto una ridotta capacità d’investimento da parte delle principali società di calcio.

 

5. Il costo del lavoro, l’effetto superstar e l’equilibrio competitivo

La principale causa di sofferenza economica del calcio europeo è stata la crescita del costo del lavoro per i calciatori. Le serie storiche disponibili evidenziano, infatti, che nei principali campionati nazionali europei l’aumento dei ricavi delle principali squadre di calcio non ha prodotto profitto perché è stato assorbito dalla crescita del costo dei calciatori (indennità di trasferimento, spese salariali, benefit)[31].

Se dal punto di vista strettamente economico la crescita del costo del lavoro è chiaramente un problema per la profittabilità delle società di calcio – e spesso anche per la loro sopravvivenza – non lo è dal punto di vista agonistico, considerata la stretto relazione che esiste tra la spesa per stipendi dei calciatori e i risultati sportivi[32]. Per comprendere questa correlazione è necessario ritornare al processo di liberalizzazione del mercato del lavoro europeo dei calciatori avviato con la cosiddetta “sentenza Bosman” della Corte di Giustizia dell’Unione Europea nel 1995; questa sentenza, sulla base dei principi di relazione economica generali dell’UE, vieta ogni restrizione o discriminazione ai calciatori e alla loro libera circolazione nei paesi dell’Unione, e impone la garanzia della libera concorrenza. La liberalizzazione del mercato dei calciatori, spinta dalla “sentenza Bosman”, a differenza di quanto atteso, non ha prodotto una riduzione generalizzata del valore delle compravendite dei cartellini dei calciatori. Ciò si spiega considerando la natura segmentata del mercato dei calciatori che può essere rappresentato attraverso un modello dualistico[33], in cui la concorrenza non aumenta in maniera analoga su tutti i segmenti dell’offerta di lavoro, infatti, su quello primario aumenta significativamente il numero degli acquirenti, ma non i calciatori di talento, mentre accade il contrario sul segmento secondario. Attraverso questo meccanismo si accentua la polarizzazione tra un insieme limitato di atleti di talento raro – le cosiddette “superstar” in economia dello sport – ancora più ambite e meglio retribuite, e l’insieme più vasto degli altri calciatori di talento più comune per i quali la concorrenza è maggiore e condizioni di lavoro offerte peggiorano[34].

Oltre alla polarizzazione, d’altra parte, la “sentenza Bosman” ha comportato una crescita progressiva del numero dei trasferimenti e la riduzione della durata media di permanenza del calciatore presso la stessa società. L’aumento del volume di transazioni per calciatore ha fatto crescere la rilevanza economica e politica degli agenti intermediari nelle contrattazioni e ha portato alla costituzioni di nuovi soggetti. Oggi, infatti, accanto ai tradizionali procuratori e agenti, operano organizzazioni, con varia natura giuridica, che offrono servizi che si integrano a quelli tradizionali della procura; e poi ci sono nuovi soggetti finanziari – come i fondi d’investimento, già da tempo operativi nei paesi del Sud America – che acquistano la proprietà di “cartellini” (o di quote) dei calciatori[35] che svolgono funzioni che quasi più nulla hanno a che fare con l’attività tradizionale degli agenti di calciatori di tutela dell’atleta. Oggi, invece, queste nuove organizzazioni non solo seguono logiche di profitto indipendenti dalla dinamica sportiva, ma per la loro capacità finanziaria hanno assunto un potere crescente sulle società e sul calciomercato, con l’interesse esplicito di aumentare il loro volume di affari attraverso la crescita sia del numero, sia del valore dei trasferimenti dei calciatori. Il giro d’affari annuale degli agenti è stato stimato dalla Uefa in circa 400 milioni di euro, con una crescita molto rapida anche negli ultimi anni, tanto che il fatturato nel breve arco di tempo dal 2008 al 2011 si è raddoppiato. L’industria del calcio in senso stretto paga, quindi, un prezzo crescente ai mediatori del calciomercato, con aggravio del costo del lavoro, ma i condizionamenti che esercitano tali operatori si estendono alle strategie manageriali delle società e arrivano alle scelte tecniche delle squadre.

A monte di questo mercato c’è l’attività più profittevole del calcio, quella cioè della formazione o della scoperta dei talenti e del loro inserimento nei circuiti del calcio che conta. In Italia, nonostante l’elevato investimento della Figc e delle Leghe sulle politiche del settore giovanile le società di calcio, soprattutto quelle di Serie A, non hanno sviluppato una strategia comune, lasciando all’iniziativa delle singole strategie societarie di valutare l’opportunità e le modalità di investire sul settore giovanile con risultati molto differenziati. In generale, quindi, sia che si tratti di formare per vendere, sia di formare per vincere il calcio italiano negli ultimi anni ha perso terreno rispetto alle prestazioni mostrate dagli altri principali sistemi nazionali europei.

L’alternativa allo sviluppo dei settori giovanili è la ricerca dei talenti in giro per il mondo. Lo sviluppo di questa attività di reclutamento ha determinato un crescente mercato internazionale, coinvolgendo in misura sempre più ampia calciatori minorenni con una sempre più spinta tendenza alla riduzione dell’età di reclutamento[36]. Data la natura precoce della carriera del calciatore, infatti, la ricerca del talento si concentra sempre più sui bambini che rappresentano, nei casi di carriera di successo, la fonte di maggiore profitto per i mediatori. E la ricerca dei giovani talenti si concentra sempre più in alcune aree del mondo dove più sviluppata è la rete di soggetti economici specializzati sul talent scouting[37]. I rischi di sfruttamento dei minori sono elevati e la stessa Fifa ha disciplinato il trasferimento dei calciatori, con diverse eccezioni, che complicano il quadro giuridico rendendo più complicata l’attività di vigilanza e controllo dei comportamenti irregolari ed illeciti che, d’altra parte, hanno approfittato delle incoerenze del diritto internazionale e dei margini di autonomia lasciati dalla normativa sportiva per sviluppare sistemi per rendere formalmente corrette transazioni che contraddicono lo spirito e l’intenzione della normativa. A questi comportamenti si sommano poi quelli manifestamente illeciti.

Questa struttura emergente del mercato internazionale dei calciatori ha avuto l’effetto di squilibrare i rapporti di forza, economici e sportivi, tra i campionati nazionali. I principali cinque campionati nazionali europei sono diventati importatori netti di calciatori – in primo luogo le squadre della Premier League e della Liga – mentre altri campionati europei, dove lo sviluppo dell’industria del calcio nazionale è più limitata, hanno sistematicamente esportato i loro talenti con un effetto di indebolimento delle squadre locali. L’equilibri competitivo, tuttavia, si è andato riducendo anche all’interno dei campionati a causa dell’affermazione di un nucleo molto ristretto di club affermati su scale europea e che dominano i campionati nazionali; in questo ristretto numero di società che si sono affermate su scala europea grazie ai successi sportivi e ai connessi ritorni economici − soprattutto nell’ambito della Uefa Champions League − con eccezione della Juventus, non ci sono realtà italiane che non sono riuscite ad occupare stabilmente una posizione nei mercati europei più profittevoli.

 

6. Osservazioni conclusive

L’industria dello spettacolo calcistico italiano, il campionato di Serie A in particolare, mostra un limite di competitività rispetto ai principali campionati europei: Premier League, Bundesliga e La Liga. Le inerzie che abbiamo discusso nell’estensione e nell’intensificazione dello sfruttamento commerciale delle competizioni calcistiche ci appaiono connesse principalmente ad una ridotta diversificazione dei ricavi, ancora troppo vincolati alla vendita dei diritti media, e alla limitata internazionalizzazione del prodotto, nonostante l’opportunità dell’elevata popolarità del calcio italiano in alcune specifiche aree del mondo. Alla base di tali inerzie è stata osservata una ridotta capitalizzazione e soprattutto una bassa patrimonializzazione delle principali società di calcio − emblematica è la controversia sugli stadi di proprietà − che si associa a strategie di marketing poco innovative, soprattutto sul piano del merchandising, sponsor, partenership commerciali, a confronto di quanto è stato messo in campo dalle società europee di vertice, prima fra tutte il noto caso del Manchester United. Alla luce delle esperienze della Premier League e della Bundesliga, tali limiti ci sembrano da ricondurre alla ridotta efficacia del progetto collettivo della Lega Serie A che rimane in secondo piano rispetto alle strategie aziendali delle singole società e al dominio, politico ed economico, di quelle più influenti.

Al di là dei limiti strettamente italiani, la regolazione economica europea, ridefinita intorno alle regole del Fair Play Finanziario della Uefa, ha come effetti collaterali la formazione di una ristretta élite di società che, su scala europea, accentrano le risorse economiche e di notorietà, nonché politiche e di influenza sul governo del calcio. Questo processo ha ridotto l’equilibrio competitivo del calcio europeo, da cui in parte dipende anche l’attrattività dello spettacolo calcistico, soprattutto per la sua estensione verso un pubblico di spettatori senza forti appartenenze identitarie di tifo per una squadra specifica; il numero di società che accedono alla Champions League è, infatti, molto ristretto e sono poi le stesse che dominano i rispettivi campionati nazionali. Considerando, però, teoricamente le competizioni di calcio un “bene congiunto”[38] − cioè un prodotto per la cui realizzazione è necessaria la collaborazione tra attori concorrenti − è necessario a nostro avviso rivalutare i meccanismi di redistribuzione delle risorse e introdurre più rilevanti dispositivi di riequilibrio competitivo, riconsiderando alcuni principi chiave del modello di sport statunitense[39].

Sempre sul piano della regolazione economica, infine, appare sempre più urgente la necessità di contrastare, sul piano internazionale, l’espansione della “economia parallela” del calcio che come ha evidenziato ancora di recente Pippo Russo[40], attraverso oligarchi, agenti monopolisti e fondi d’investimento sta non solo sottraendo parassitariamente risorse economiche agli attori centrali di questo settore (società, leghe, federazioni, calciatori, ma anche tifo organizzato), ma sta minando seriamente la credibilità sportiva del calcio.

 


[1] Ricercatore in Sociologia nel Dipartimento Scienze Sociali dell’Università degli Studi di Napoli Federico II.

[2] Mura G., 2004, “Prefazione”, in Lago U., Baroncelli A., Szymanski S., Il business del calcio. Successi sportivi e rovesci finanziari, Egea, Milano, 2004, pp. ix-x.

[3] Nell’ampia letteratura sulle trasformazioni del nuovo capitalismo si fa qui riferimento in particolare alle tesi sull’età dell’informazione e la società in rete in Castells M., La nascita della società in rete, Università Bocconi Editore, Milano, 2008.

[4] Cherubini S., “La complessità dello Sport Management: da Monobusiness a Multibusiness”, Symphonya. Emerging Issues in Management, n. 2, 2004, pp. 35-60.

[5] Si veda in particolare per l’Italia Porro N., Sociologia del calcio, Carocci, Roma, 2008; Russo P., L’invasione dell’Ultracalcio. Anatomia di uno sport mutante, Ombre Corte, Verona, 2005.

[6] Dini V., «Sempre più “display” sempre meno “play”. Il nuovo sistema del calcio e l’era Berlusconi», in Democrazia e diritto, n. 4, 2003, pp. 205-214.

[7] Si fa qui riferimento alla tesi elaborata in Liguori G., Smargiasse A., Calcio e neocalcio. Geopolitca e prospettive del football in Italia, Manifestolibri, Roma, 2003.

[8] Nostre elaborazioni su dati della Siae, diffusi attraverso la pubblicazione periodica degli annuari statistici (Siae, Lo spettacolo in Italia 1991, Roma 1992; Siae, Annuario dello spettacolo 2011, Roma 2012); il valore della produzione si riferisce ai campionati di Serie A, Serie B, Coppa Italia e gare internazionali; il valore del 1991 è attualizzato al 2011 e convertito da lire in euro.

[9] Nostra elaborazione su dati del Centro Studi della Lega Nazionale Professionisti Serie A [http://www.legaseriea.it/].

[10] Goldblatt D., The Ball is Round. A Global History of Soccer, Riverhead Books, New York, 2008.

[11] Questa prospettiva d’analisi è stata sviluppata da Boeri T., Parlerò solo di calcio, il Mulino, Bologna, 2012.

[12] Tra gli altri si rimanda a Andreff W., Nys J. F., Èconomie du sport, Presses Universitaire de France, Paris, 2002; Grant W., 2007, “An Analytical Framework for a Political Economy of Football”, British Politics, 2, 2007, pp. 69-90.

[13] Coni, 2012, I numeri dello sport 2012, Monitoraggio CONI-FSN-DSA 2012, Osservatori Statistici per lo Sport, Roma, 2012.

[14] Si rimanda qui alla prospettiva di Gereffi G., Korzeniewicz M. (eds.), Commodity Chains and Global Capitalism, Praeger, Westport, 1994.

[15] Nostra elaborazione a partire dai dati pubblicati in Teotino G., Uva M., Il calcio conta. Annuario di infografiche nel pallone, Bur-Rizzoli Rai-Eri, Milano, 2014, pp. 20-21.

[16] La stima della composizione del valore aggiunto tra industria calcistica e indotto manifatturiero e di servizi si basa su una metodologia che riprende l’impostazione e risultati del centro studi Nomisma, 2003, Dentro lo sport. Primo rapporto sullo sport in Italia, Ed. Il Sole 24 Ore, Milano.

[17] Si rimanda a Uefa, UEFA Club Licensing and Financial Fair Play Regulations, Genève, 2010.

[18] Su questo aspetto si rimanda a Bifulco L., Calcio moderno ed egemonia culturale, relazione al convegno “Cultural studies e sapere sociologicoin memoria di Stuart Hall”, Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano, 26-27 settembre 2014.

[19] Questo regolamento è vincolante soltanto per le squadre che ambiscono a partecipare alle competizioni europee. Ciò comporta che su scala nazionale sono comunque possibili strategie in contrasto con il Fair Play Finanziario, con la possibilità che alcune squadre di media classifica – come si è visto di recente proprio in Italia – possano approfittarne opportunisticamente per affermarsi sul piano nazionale a discapito delle squadre impegnate nelle competizioni europee, o altre che si sono orientate alla sostenibilità finanziaria.

[20] I capisaldi del modello sportivo europeo sono le competizioni libere, la struttura piramidale dei tornei con il principio promozione-retrocessione, l’organizzazione dello sport su base nazionale, la solidarietà finanziaria tra sport di base e professionistico.

[21] Qui si rimanda alla teoria economica delle superstars di Rosen S., “Economics of Superstars”, The American Economic Review, vol. 71, n. 5, 1981, pp. 845-858; Rosen S., Sanderson A., 2001, “Labour Markets in Professional Sports”, The Economic Journal, vol. 111, n. 469, pp. 47–68. per il caso italiano si rimanda a in particolare a Lucifora C., Simmons R., “Superstar Effects in Sport: Evidence from Italian Soccer”, Journal of Sports Economomics, vol. 4, n. 1, 2003, pp. 35-55.

[22] Si vedano i test di causalità in Hall S., Szymanski S., Zimbalist A., “Testing Causality Between Team Performance and Payroll: The Cases of Major League Baseball and English Soccer”, Journal of Sports Economics, vol. 3, n. 2, 2002, pp. 149-168.

[23] Si veda Bundesliga, 10 Years of Academies. Talent Pools of Top-Level German Football, Frankfurt/Main, 2011.

[24] I dati economici riportati in questo paragrafo sono nostre elaborazioni a partire dai dati diffusi dalla Figc nei ReportCalcio annuali. Per approfondimenti si rimanda agli studi: Teotino G., Uva M., La ripartenza. Analisi e proposte per restituire competitività all’industria del calcio in Italia, il Mulino, Bologna, 2010; Teotino G., Uva M., Il calcio ai tempi dello spread, il Mulino, Bologna, 2012; Donnà N., Teotino G., Uva M., Il calcio conta. Annuario di infografiche nel pallone, Bur-Rizzoli Rai-Eri, Milano, 2014.

[25] Per il riferimento al caso italiano, si rimanda in particolare a Lago U., Baroncelli A., Szymanski S., Il business del calcio. Successi sportivi e rovesci finanziari, Egea, Milano, 2004.

[26] Per un’analisi più approfondita si rimanda al nostro lavoro Pirone F., «La partita degli affari nell’industria del calcio», in Bifulco L., Pirone F., A tutto campo. Il calcio da una prospettiva sociologica, Guida, Napoli, 2014, pp. 105-158.

[27] I diritti TV internazionali contrattati dalla Lega Calcio per la Serie A per il periodo 2012-2015 ammontano  a 117 milioni di euro a stagione. Si tratta di un valore ancora molto distante dai risultati della Premier League che ha puntato su una strategia di crescita fortemente orientata all’internazionalizzazione. Il calcio inglese, infatti, ha aumentato costantemente i ricavi dalla vendita dei diritti TV internazionali arrivando a 479 milioni di sterline all’anno per il triennio 2010-2013, cresciuti a 665 milioni per il successivo triennio di contrattazione.

[28] Si veda in particolare Siegfried J., Zimbalist A., “The Economics of Sports Facilities and Their Communities”, Journal of Economic Perspectives, vol. 14, n. 3, 2000, pp. 95-114.

[29] I casi esemplari di successo sono noti: Amsterdam ArenA dell’Ajax, Emirates Stadium dell’Arsenal, Etihad Stadium del Manchester City, Allianz Arena del Bayern Monaco.

[30] Ci si riferisce in particolare ai commi 303-305 della legge n 147 del 27 dicembre 2013, cosiddetta “Legge sugli stadi”.

[31] Il tema è stato analizzato in Drut B., 2011, Économie du football professionnel, La Découverte, Paris.

[32] Si rimanda gli studi di Kuypers T., Szymanski S., Winners & Losers: The Business Strategy of Football, Penguin, London, 1999.

[33] Si veda Bourg J. F., Gouguet J. J., Èconomie du sport, La Décuverte, Paris, 2005.

[34] La polarizzazione ha effetti importanti sulle retribuzioni dei giocatori, com’è evidenziato dalla distribuzione della massa salariale tra i calciatori professionistici. Nel caso italiano, ad esempio, secondo i dati Enpals (2013), riferiti all’anno 2012, la metà dei 4.298 atleti professionisti Figc ha avuto una retribuzione annua inferiore a 23,5 mila euro. Le diseguaglianze sono evidenti se si osserva che mentre il 10% con la retribuzione più alta ha guadagnato cifre superiori a 410 mila euro annui, il 10% con la retribuzione più bassa ha incassato redditi annui inferiori alla soglia dei 6,3 mila euro. Considerando soltanto i calciatori di Serie A nella stagione 2012-2013, la distribuzione dei calciatori per retribuzione annua dimostra ancor più chiaramente l’effetto della struttura dualistica del mercato del lavoro: su 529 calciatori soltanto 3 superano la soglia di 5 milioni di euro all’anno, mentre circa l’80% non supera la soglia di un milione di euro.

[35] Si veda il rapporto di Poli R., Rossi G., 2012, Football Agents in the Biggest Five European Football Markets. An Empirical Research Report, CIES Football Observatory, Neuchâtel.

[36] Si veda Poli R., Marché de footballeurs, reseaux et circuits dans l’économie globale, Peter Lang, Berne, 2010.

[37] Ci si riferisce in particola al Sud America – soprattutto Brasile e Argentina – e Africa Centro-Occidentale – in particolare Nigeria, Camerun, Ghana, Costa d’Avorio, Senegal; si veda Besson R., Poli R., Ravenel L., Demographic Study 2013, CIES Football Observatory, Neuchâtel, 2013.

[38] Sul tema si rimanda a Caselli G. P., “L’economia dello sport nella società moderna”, in Aa.Vv., Enciclopedia dello Sport, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma, 2003.

[39] Sulla comparazione tra il modello europeo di sport e quello statunitense si rimanda a Barros C. P., Ibrahímo M., Szymanski S. (eds.), Transatlantic Sport. The Comparative Economics of North American and European Sports, Edward Elgar, Cheltenham, 2002.

[40] Russo P., Gol di rapina. Il lato oscuro del calcio globale, Edizioni Clichy, Firenze, 2014.

 

Category: Economia, Sport e giochi

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