E’ morto a 93 anni Ronald Dore uno dei più grandi studiosi del Giappone e del capitalismo internazionale

| 15 Novembre 2018 | Comments (0)

Poche ore fa  abbiamo avuto, Amina ed io, da sua moglie Maria la notizia che stamattina si è spento  serenamente a 93 anni Ronal Dore. Ronald Dore (per gli amici Ron Dore), nato nel 1925 a Bournemouth (nel Dorset, sulla Manica), è  stato uno dei massimi esperti mondiali di economia e cultura giapponese e del capitalismo internazionale. Già docente al Mit e ad Harvard, è stato associate researcher della London School of Economics e ha tenuto corsi nelle università giapponesi  essendo i suoi libri tradotti in giapponese, lingua che Ron padrioneggiava perfettamene sia come scritto che come orale. Da più di vent’anni  ha scelto di risiedere a Grizzana Morandi, in provincia di Bologna. Tra le sue  pubblicazioni in italiano: Bisogna prendere il Giappone sul serio (Il Mulino, 1990), Capitalismo di borsa o capitalismo di welfare? (Il Mulino, 2001), Il lavoro nel mondo che cambia (Il Mulino, 2005), Finanza pigliatutto (Il Mulino, 2009), Globalizzazione con Maria Rosaria Ferrarese (Enciclopedia Treccani 2014)

 

A sua moglie e a suo figlio Julian  tutto il nostro affetto e per ricordare Ron in un suo momento sereno ripubblico l’intervista che gli ho fatto in occasione della festa per i suoi novanta anni  nella sua casa a Grizzana Morandi (Bologna)  dove è stato festeggiato dalla moglie, il figlio e molti amici e amiche. Come ci ha scritto Maria “è morto serenamente nella consapevolezza di essere stato molto amato”

Per ricordarlo i familiari incontreranno  gli amici e amiche  sabato 17 novembre 2018 al crematorio di Borgo Panigale alle ore 11.

 

 

D. Quali sono stati secondo te i principali cambiamenti nel mondo della finanza?

R. Negli ultimi anni c’è stato un cambiamento fondamentale nella natura della borsa e nelle sue relazioni con l’economia reale. Si è tradizionalmente ritenuto che il prezzo di una azione sia dovuto a un effetto aggregativo di decisioni individuali e separate da parte di azionisti di vendere, comperare oppure tenere le azioni. Il prezzo di un’azione diventa così un indicatore attendibile del valore fondamentale di un’impresa. Questo valore cambia solo quando un numero significativo di azionisti, sulla base di nuove informazioni, cambia le sue preferenze nella scelta tenere/vendere/comperare azioni.

Rispetto a questa formazione dei prezzi di un’azione il primo cambiamento è la presenza di un sempre più elevato numero di azionisti che invece di prendere le sue decisioni separatamente e individualmente delega le decisioni sulle sue azioni a grandi fondi che ricevono un compenso per gestire queste azioni, in genere una somma calcolabile in una percentuale del 70-80 % su i ricavi medi derivati dai possibili utili. Questi fondi pertanto prendono decisioni simultanee il cui peso è proporzionale al numero totale delle azioni che i fondi rappresentano. Questa massa di azioni comperate o vendute significa che ogni decisione presa da un gestore di fondi ha un effetto immediato su molte azioni nello stesso momento per cui queste decisioni aggregate contribuiscono a determinare il prezzo delle azioni.

Il secondo grande cambiamento è che, come conseguenza, le decisioni di vendere/comperare/tenere le azioni non sono più prese da singoli individui. Con l’aumento della mondializzazione dei commerci i gestori di fondi utilizzano sempre più frequentemente degli algoritmi che determinano il tipo di decisioni da prendere con tempi di reazione al nanosecondo via via che si hanno cambiamenti nei prezzi delle azioni. Il risultato è aggravato dal fatto che gli algoritmi utilizzati dai gestori dei fondi sono tra di loro molto simili. Il risultato è che il mercato dei titoli azionari ha come una sua vita autonoma. Piccoli movimenti nei prezzi delle azioni possono tradursi automaticamente in spostamenti significativi. La conseguenza è che questi spostamenti prodotti automaticamente non hanno più alcuna relazione con l’idea tradizionale che avevamo sul significato e sulla formazione dei prezzi di un’azione.

D. Fatta questa importante premessa su i cambiamenti intervenuti nel mercato finanziario come valuti la recente crisi finanziaria con la caduta delle borse cinesi?

R. Questa domanda è sul radicamento dell’economia nella società (il concetto che in inglese è sintetizzato nel termine “embeddedness”). Il distacco che si è realizzato tra la popolazione cinese e il mercato azionario e l’economia significa che la Cina è cresciuta economicamente senza avere realizzato quelle strategie che hanno invece caratterizzato il precedente sviluppo del Giappone. Il Giappone quando ha realizzato il suo sviluppo è stata una società che ha realizzato una economia  “embedded” nella società, dove cioè le relazioni economiche si sono radicate nelle relazioni sociali. In una società contadina i proprietari terrieri e i fittavoli venivano seguiti da chi abitava nei villaggi e in questo tipo di società i proprietari terrieri e i fittavoli si proponevano di massimizzare i loro profitti cercando però di non danneggiare le loro relazioni sociali; una eccessiva ricerca di profitti non doveva essere a scapito dei rapporti con il loro vicinato. Ma nella società di oggi quando le decisioni sono prese al di fuori delle mani degli azionisti e delegate ai computer non si può in alcun modo trovare un equilibrio tra la ricerca del profitto di una parte e il benessere dell’altra parte contraente.  Questo modo di agire incide non solo nelle relazioni all’interno di una singola economia ma con le molteplici relazioni individuali che aggregate definiscono le relazioni tra due economie come quella giapponese e quella cinese. Oggi si può dire che il Giappone e la Cina sono due economie alla ricerca del profitto massimo,  ciascuna separatamente dall’altra, con pochi legami tra di loro.

D. In Giappone si è parlato a lungo di organizzazione del lavoro toyotista. Oggi questo modello organizzativo sta cambiando?

R. Il principale effetto del distacco del mercato azionario dall’economia reale è stato quello di incidere sulle precedenti relazioni sociali che erano “embedded” nelle relazioni economiche. Il così detto toyotismo funzionava in quanto il Giappone era una società “embedded”. Quello che era accaduto nei villaggi dove i contadini avevano avuto rapporti stretti con proprietari terrieri e fittavoli era accaduto anche nel mondo delle industrie dove si era diffusa l’idea della azienda/comunità. Questo significava che tra caposquadra e lavoratore, tra manager e subordinati non c’era soltanto una relazione funzionale ma la consapevolezza che tutti facevano parte di una stessa azienda con una con una comune identificazione e impegno per la riuscita dell’impresa a cui appartenevano. Questa “embeddedness” modificava le relazioni quando venivano prese delle decisioni. La ricerca di vantaggi individuali al vertice era temperata in un qualche modo dalla ricerca del benessere di tutti i membri che facevano parte della fabbrica/comunità (come, analogamente, la ricerca dei profitti dei proprietari terrieri e fittavoli teneva conto del benessere dei contadini). Ma quando le decisioni non sono più prese da singole persone ma da algoritmi gestiti da computer, le transazioni diventano economicamente “pure”  e non sono più influenzate dalla ricerca di un benessere generalizzato delle parti contraenti.  Questo è stato un cambiamento radicale che ha significato che le decisioni non sono state temperate da ogni riflessione non strettamente economica come la ricerca di “qualità” o la reputazione dell’impresa. Se massimizzare i profitti esige produrre testi meno accurati basati sul copia–incolla (per fare un esempio all’interno del modo di fare pubblicazioni accademiche) lo si faccia senza porsi troppi problemi. Non sono cose che ci riguardano (in inglese si usa il detto “ It was no skin off anybody’s nose”) se i profitti  comportano alcuni costi di demolizione. La conseguenza è che se un editore vuole un certo numero di parole all’ora (in un noto caso si è arrivati a 4.000) le avrà anche se meno accurate e questo stile di comportamento diventerà presto la norma.

D. In un tuo intervento l’anno scorso hai polemizzato con Romano Prodi sull’uscita dell’Italia dall’euro che tu ritenevi necessaria perché affermavi “l’entrata nell’euro è stato un errore per l’Italia”. Sei ancora di questa opinione?

R. Sono ancora dell’idea che l’Italia dovrebbe abbandonare l’euro. L’economia italiana è ostacolata dal fatto che i prezzi all’esportazione in euro cessano di essere competitivi perché soffrono del grande svantaggio che il loro fattore di input è allo stesso livello dei prezzi tedeschi. Il problema è che  se entrare nell’euro è stato facile uscirne comporta costi molto elevati, non tanto costi alla economia e alla sua competitività ma costi ai milioni di lavoratori i cui salari sono in euro.  Più grandi sono le perdite dell’economia (perdite legate all’export in euro)  e più elevate sarebbero le perdite delle persone che si troverebbero ad avere un reddito abbassato a una lira svalutata se si uscisse dall’euro.

D. Come sta cambiando la situazione geopolitica internazionale? Come vedi l’espansione della Cina in Africa? E come vedi la situazione nella Russia di Putin?

R. Sulle relazioni internazionali incide l’espansione delle nazioni più competitive a danno delle nazioni in cui i fattore prezzo è stato sopravvalutato. La posizione della Cina in questo scenario è strettamente legata alla sua capacità di crescita economica e alla sua abilità nel realizzare investimenti redditizi in Africa molto più di tutte le altre nazioni. Ma  questa capacità di fare investimenti dipende dalla loro redditività e questa dipende più dalla struttura delle società africane che dalle capacità della Cina di incidere in quelle società.  Sono poche le società africane (Sud Africa, parte della Nigeria, Etiopia, Eritrea) che offrono ragionevoli prospettive di modeste redditività ma sono molti gli stati che possono essere definiti stati canestro che possono profittare in modo insoddisfacente dall’espansione cinese. In quanto a Putin trova minori ostacoli la sua abilità  per individuare investimenti redditizi nella grande Russia. I suoi incentivi a fare sono rinforzati da forti obiettivi non economici come il dominare l’intero territorio russo dal punto di vista militare e politico.

 

D. Come valuti le recenti posizioni dell’Europa sull’esodo dei migranti che fuggono a causa della povertà e dei conflitti?

R. Quando il capitale non si muove verso le nazioni povere, gli abitanti di quelle nazioni trovano incentivi sempre più elevati a muoversi verso le nazioni dove c’è capitale. E’ difficile da prevedere se il flusso di migrazione tenderà a diminuire o piuttosto a gonfiarsi. L’Europa cerca di far fronte chiudendo le finestre ma gli europei sono in profondo conflitto su quanto a lungo possono durare a resistere alle emozioni della solidarietà umana. Ma via via che i numeri crescono con il passare degli anni una durezza di cuore se non nelle intenzioni può diventare la regola.

D. Vi sono scenari di guerra possibili in relazione all’Isis e alle relazioni Israele/Palestina?

R. Israele è l’unica nazione  capace di sostenere una economia di fortezza assediata con spietata efficienza.  Questa efficienza è moltiplicata dal conflitto interno al mondo arabo tra sunniti e sciti.  Il califfato che è stato creato permette a Israele di affermare come dice Mercuzio a Romeo “sono ferito.. accidenti a entrambe le vostre case”, una posizione che garantisce di profittare della debolezza dei suoi nemici e mantenere il suo potere. Sfortunatamente tutto ciò apre possibilità di guerra.

Category: Economia, Editoriali, Osservatorio Cina

About Vittorio Capecchi: Vittorio Capecchi (1938) è professore emerito dell’Università di Bologna. Laureatosi in Economia nel 1961 all’Università Bocconi di Milano con una tesi sperimentale dedicata a “I processi stocastici markoviani per studiare la mobilità sociale”, fu segnalato e ammesso al seminario coordinato da Lazarsfeld (sociologo ebreo viennese, direttore del Bureau of Applied Social Research all'interno del Dipartimento di Sociologia della Columbia University di New York) tenuto a Gosing dal 3 al 27 luglio 1962. Nel 1975 è diventato professore ordinario di Sociologia nella Facoltà di Scienze della Formazione dell'Università di Bologna. Negli ultimi anni ha diretto il Master “Tecnologie per la qualità della vita” dell’Università di Bologna, facendo ricerche comparate in Cina e Vietnam. Gli anni '60 a New York hanno significato per Capecchi non solo i rapporti con Lazarsfeld e la sociologia matematica, ma anche i rapporti con la radical sociology e la Montly Review, che si concretizzarono, nel 1970, in una presa di posizione radicale sulla metodologia sociologica [si veda a questo proposito Il ruolo del sociologo (a cura di P. Rossi), Il Mulino, 1972], e con la decisione di diventare direttore responsabile dell'Ufficio studi della Federazione Lavoratori Metalmeccanici (FLM), carica che manterrà fino allo scioglimento della FLM. La sua lunga e poliedrica storia intellettuale è comunque segnata da due costanti e fondamentali interessi, quello per le discipline economiche e sociali e quello per la matematica, passioni queste che si sono tradotte nella fondazione e direzione di due riviste tuttora attive: «Quality and Quantity» (rivista di modelli matematici fondata nel 1966) e «Inchiesta» (fondata nel 1971, alla quale si è aggiunta più di recente la sua versione online). Tra i suoi ultimi libri: La responsabilità sociale dell'impresa (Carocci, 2005), Valori e competizione (curato insieme a D. Bellotti, Il Mulino, 2007), Applications of Mathematics in Models, Artificial Neural Networks and Arts (con M. Buscema, P.Contucci, B. D'Amore, Springer, 2010).

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