Angelo Salento: Industria 4.0. Cosa significa per il lavoro e i lavoratori

| 16 Febbraio 2016 | Comments (1)

 

Diffondiamo l’intervento di Angelo Salento a un Seminario della Fondazione Claudio Sabbatini di Bologna

Industria 4.0 è un costrutto fortemente evocativo, che aspira a diventare un termine di riferimento per una discorsività di stampo tecnocratico, fondata sull’assioma che le trasformazioni della tecnologia siano non soltanto la dotazione strumentale, ma il principio stesso del mutamento della regolazione economica e sociale. I riferimenti empirici di questa parola-chiave sono poco chiari, e non è scontato che nel corso del tempo si vengano precisando.

Provvisoriamente, è possibile porre alcuni elementi di riferimento che sembrano ricorrere nella pubblicistica, con riferimento ad aspetti diversi del fenomeno cui il termine allude.

–  L’assunto di fondo è l’ipotesi – che in chiave deterministica viene proposta, allo stesso tempo, come una certezza e come una necessità – che un fenomeno di profonda ed estesa digitalizzazione sia in atto in ambiti sempre più numerosi della vita economica, sia nella sfera della produzione che in quella della distribuzione e del consumo, attraverso lo sviluppo di un’illimitata possibilità di controllare e governare gli artefatti fisici attraverso dispositivi digitali in essi incorporati.

–  Rispetto a precedenti cicli di automazione e digitalizzazione, il nuovo corso dell’innovazione tecnologica garantirebbe non soltanto una connessione su segmenti critici dei cicli di produzione e consumo, ma un’integrazione tendenzialmente organica, senza soluzioni di continuità: un kanban pervasivo che dà corpo a flussi di informazione e comunicazione attraverso ogni fase dei processidi valorizzazione, dalla “produzione di desiderio”, ai comportamenti di consumo, ai processi di ideazione a quelli di sviluppo, produzione e commercializzazione di beni e servizi, permettendo un controllo e un coordinamento permanente delle coerenze fra domanda di merci, produzione (nei suovi diversi segmenti e fasi), distribuzione e fruizione/consumo.

–  Su queste basi sarebbe già in atto una profonda ristrutturazione dei processi di produzione anche nei settori manifatturieri, attraversati, in ipotesi, da un sistema cyber-fisico pervasivo. Esso permetterebbe alla “smart factory” di ottenere elevati livelli di efficienza nell’utilizzo di impianti flessibili e multifunzionali, di raggiungere inediti livelli di integrazione delle catene del valore, di monitorare i mercati e “dialogare” con i clienti a costi limitati. Una peculiare attenzione all’impatto della digitalizzazione sulla struttura della produzione manifatturiera distingue tendenzialmente un approccio renano alla questione, rispetto a quello anglosassone, tendenzialmente più focalizzato sulla sfera della distribuzione e della fruizione dei beni e dei servizi.

–  L’incorporazione di dispositivi telematici negli artefatti – cosiddetta Internet of Things – avrebbe un ruolo decisivo per il coordinamento dei processi: gli strumenti di produzione e gli oggetti di consumo sarebbero in questo modo “innervati” da servizi gestiti remotamente, e tendenzialmente utilizzabili soltanto in uno con la fruizione dei servizi stessi, rendendo la distinzione fra oggetto e servizio possibile soltanto sul piano analitico, ma impossibile sul piano empirico.

–  La capacità di raccogliere, conservare, elaborare e mettere a valore big data sarebbe un elemento indispensabile per gli attori economici che intendono porsi in posizione di coordinamento e controllo dei processi.

–  Secondo uno schema di argomentazione tecnocratico, la pubblicistica dominante assume questa ipotetica trasformazione (ricostruita generalizzando alcune esperienze sostanzialmente molecolari) come l’orizzonte inevitabile – e comunque per definizione prospero – verso il quale le istituzioni comunitarie e nazionali devono orientare la regolazione dell’economia, predisponendo un quadro di coerenze per agevolare la transizione. In questa prospettiva, il concetto di innovazione viene fatto sostanzialmente coincidere con l’idea dello sviluppo delle tecnologie digitali e dell’advanced manufacturing.

Le prenozioni correnti nell’ambito della vulgata determinista su questo tema non dovrebbero essere assunte come presupposti, né come strumenti per la comprensione delle trasformazioni in corso. In ogni caso, l’ipotesi dell’Industria 4.0 dovrebbe essere valutata empiricamente, prima ancora di prospettare le sue implicazioni sul piano della regolazione del lavoro e del mercato del lavoro. Un programma di ricerca su un fenomeno che si pretende ampiamente inedito non può attenere soltanto ai quesiti-cardine che riguardano l’analisi del lavoro, ma dovrebbe porre innanzitutto alcuni interrogativi preliminari, indispensabili per una prima valutazione della macroipotesi.

L’inventario di domande di ricerca che proporrò non è certamente esaustivo, ma si articola su differenti piani d’analisi. Naturalmente, vale l’avvertenza che l’ordinamento delle varie questioni è soltanto una partizione analitica.

 

a) Sulla costruzione della discorsività determinista

Un’analisi empiricamente fondata del mutamento deve innanzitutto evitare di utilizzare asserti deterministici come propri strumenti analitici o risorse argomentative. Parallelamente, dovrebbe produrre un’analisi dei processi di costruzione della discorsività determinista, sul presupposto che essi costituiscono parte integrante del fenomeno e attengono pienamente al cultural circuit of capital (Thrift 2005). Un’analisi a campione (eventualmente a scelta ragionata) su materiali come quotidiani o periodici più o meno specializzati può essere condotta in tempi anche brevi e con risultati interessanti.

Una sezione dell’indagine può essere dedicata a un’analisi visuale, volta a comprendere la trasformazione dell’aspetto e della rappresentazione della fabbrica, in quanto forme specifiche della legittimazione e della celebrazione contemporanea del potere economico.

 

b) Sulla concezione dell’impresa e sulle modalità di accumulazione

Le scelte tecniche e tecnologiche costituiscono non il fine né la struttura dell’azione organizzata, ma l’elemento strumentale dell’azione. Comprendere la tecnologia implica perciò la necessità di comprendere le scelte di campo rispetto alle quali è chiamata a operare. In particolare, occorre chiarire quali siano le aspettative degli attori economici in ordine al contributo della digitalizzazione a processi di accumulazione fondati su una logica di point-value (Bowman et al. 2012), nella quale l’obiettivo di massimizzazione del rendimento del capitale ha un ruolo predominante e solitamente viene valutato nel breve periodo.

In questa prospettiva, si può porre – sullo sfondo della ricerca sulle implicazioni lavoristiche della digitalizzazione – l’ipotesi che fra i moventi di questo processo rientrino obiettivi di riduzione dei costi fissi (e dei costi del lavoro in particolare), di incremento e affinamento del controllo e del coordinamento sulla catena del valore, di immediata controllabilità delle variabili economiche in ottica di massimizzazione del valore per gli azionisti (accumulazione finanziaria), di targetizzazione/gerarchizzazione dell’offerta in funzione delle capacità di spesa dei consumatori, di controllo e coercizione indiretta sui comportamenti di consumo. Bisogna ipotizzare che un impatto positivo sulla produttività possa avere un’importanza strategica nell’ottica delle direzioni d’impresa, ma che possa anche essere ritenuto un effetto secondario e non preminente rispetto ad altre finalità.

 

c) Sul task-environment e i rapporti inter-impresa

Nel corso del Novecento le grandi imprese hanno spesso mantenuto il controllo della produzione degli strumenti di produzione, sviluppando anche rami di business connessi e facendosi “esportatrici” di tecnologie di produzione verso altri settori (si consideri ad es. il caso di Comau nel Gruppo Fiat). Secondo l’ipotesi dell’ Industria 4.0, la transizione verso una “nuova fase” di evoluzione tecnologica vedrebbe l’emergere di nuovi attori – talvolta piccole imprese fortemente innovative – in possesso di competenze-chiave e di un know-how specificamente adeguato ad affrontare una transizione tecnologica (ad esempio, capacità di raccolta/conservazione/elaborazione di big data). Rispetto a questi attori economici, in ipotesi, le industrie manifatturiere si trovano in una posizione problematica. Secondo un insegnamento classico della teoria dell’organizzazione, «quando la capacità di supporto è concentrata in uno o più elementi del task environment, le organizzazioni operanti secondo razionalità cercano di reperire potere nei confronti di coloro da cui dipendono» (Thompson 1967 [1990, p. 111]); si deve supporre che esse seguano strategie cooperative secondo le modalità praticabili. È interessante verificare, quindi, non solo se e fino a che punto i fornitori di tecnologia guadagnino una posizione di condizionamento più o meno esplicito, ma anche che tipo di relazioni l’impresa-base costruisce con il/i fornitore/i di tecnologie: relazioni formali-contrattuali di scambio di prestazioni; oppure atti di cooptazione di tipo più o meno informale (partecipazioni incrociate, interlocking directorates, scambi o innesti unilaterali di figure professionali); o ancora relazioni di coalizione, che tipicamente prendono la forma di joint ventures.

Le manovre in difesa dei campi di azione possono comportare anche ridefinizioni radicali. Quando le imprese non riescono a tracciare i loro confini intorno ad attività che, se abbandonate al task environment, diventano contingenze critiche, possono tendere a ricomporre il proprio campo d’azione e il proprio posizionamento competitivo. Anche questa ulteriore tendenza, segnalata dai sostenitori dell’ipotesi Industria 4.0, può costituire oggetto di un’analisi di sfondo.

Oltre ai rapporti fra impresa e fornitori di tecnologia, bisogna comprendere come i nuovi artefatti vengano utilizzati nella gestione dei rapporti con gli altri attori delle catene di fornitura. Che impatto hanno sul coordinamento e il controllo dei processi inter-impresa? C’è un incremento dell’eteronomia dei fornitori?

 

d) Sulle dinamiche organizzative e il lavoro

Un requisito essenziale di qualsiasi analisi non determinista è la capacità di pensare unitariamente la trasformazione organizzativa e quella tecnologica. Esse sono, per così dire, “una sola storia”. L’adozione di un artefatto, in questa prospettiva, può essere osservata come un modo per introdurre regole e vincoli all’azione degli individui e dei collettivi.

Secondo uno schema proposto da Masino e Zamarian (2000), l’analisi può essere condotta su tre insiemi di processi decisionali rilevanti:

a) Decisioni di concezione/progettazione: riguardano gli obiettivi cui l’artefatto dovrebbe rispondere, le specifiche funzioni che svolge, le modalità di interfacciamento con gli operatori. È importante comprendere anche qual è la capacità di controllo dell’impresa che adotta l’artefatto rispetto a queste decisioni: controlla interamente la progettazione? Co-progetta? Non partecipa alla progettazione (se non in fasi di customizzazione)?

b) Decisioni di adozione: in quali fasi e in quali settori di attività l’artefatto sarà utilizzato? In quali processi? Si cambiano i processi oppure si introduce la nuova tecnologia nei/sui processi esistenti? Per quali operazioni? Da parte di quali operatori? Interfacciandosi con quali altri artefatti e in che modo? Si tratta di decisioni che solitamente appartengono alla direzione. È importante comprenderle, perché hanno un rilievo notevole rispetto alle condizioni e alle modalità di lavoro.

c) Decisioni di utilizzo: sono quelle che spettano agli operatori. Qui si colloca pertanto uno dei focus principali della ricerca. Quali sono le condizioni d’uso dell’artefatto? Ovvero, qual è il punto di contatto tra strumento e operatore? Quali sono i confini della discrezionalità dell’utilizzatore? I nuovi artefatti incorporano forme di comando e di controllo evolute? Le condizioni d’uso attivate dagli operatori possono anche essere diverse da quelle previste dai progettisti e da quelle richieste dal management. Inoltre, possono cambiare nel corso del tempo e possono generare trasformazioni ricorsive. Ma quanto è ampia questa sfera di “autonomia” dell’operatore? Tende ad ampliarsi o a restringersi? È promossa o è ostacolata dalle scelte di progettazione e di adozione degli artefatti?

Oltre all’analisi sui processi decisionali si devono approfondire anche altre questioni ad esse connesse, relative in particolare a:

1. competenze degli operatori: quali competenze sono richieste, e come si modificano?  Occorre verificare in particolare quale consistenza reale abbia la figura, ricorrente nelle apologie dell’Industria 4.0, dei cosiddetti augmented blue collars, con l’avvertenza che, almeno dalla fine degli anni Settanta del secolo scorso, il tema dell’empowerment è sempre stato parte integrante della retorica manageriale a proposito dei processi di automazione. L’idea che l’operatore debba essere più consapevole rispetto alle tecnologie che usa è comune nel filone determinista. Si tratta però di un assunto da valutare empiricamente, poiché è probabile il caso che le interazioni operatore/macchina siano banalizzate da interfacce e che l’accesso tecnico all’infrastruttura sia interdetto agli utilizzatori e riservato a personale tecnico diverso;

2. ricomposizione di mansioni/funzioni/ruoli, nuove segmentazioni dei processi;

3. formazione degli operatori. È un aspetto strettamente connesso alla natura delle competenze mobilitate: benché secondo la retorica gestionale la formazione all’uso delle tecnologie sia sempre orientata all’arricchimento delle mansioni e della professionalità, i processi di formazione sono molto spesso orientati ad agevolare il mero adattamento degli esecutori e delle loro prassi.

4. ristrutturazione della forza lavoro (sia in termini di professionalità che di livelli occupazionali): si assiste a una sostituzione di professionalità o una complessiva ridefinizione delle professionalità? Ci sono implicazioni sul lavoro di ideazione, oltre che su quello esecutivo?

5. mutamenti eventuali nei processi di manutenzione e di intervento degli operatori sugli artefatti;

6. regolazione dei flussi di lavoro e relative negoziazioni;

7. inquadramento, retribuzione, trattamento normativo;

8. questioni di sicurezza del lavoro e di benessere al lavoro.

 

e) Sull’azione sindacale

Le questioni che si aprono sul piano dell’azione sindacale sono moltissime. Naturalmente, esse possono essere poste compiutamente soltanto all’esito di un’analisi sulle dimensioni e i connotati reali dei fenomeni.

In astratto, si può assumere che alcune questioni riguardino una dimensione analitica, e quindi vadano poste come vere e proprie domande di ricerca: quali sono le trasformazioni dello spazio d’azione del sindacato? Quali spazi si aprono (e/o si chiudono) per la negoziazione delle condizioni di lavoro, dell’inquadramento, della retribuzione? Qual è la propensione degli operatori delle “smart factories all’associazionismo sindacale?

Altre questioni si pongono su un piano “normativo” e “politico”, riguardano cioè gli indirizzi da assumere: quale atteggiamento promuovere rispetto alle nuove tendenze ipotizzate? L’enfasi del mainstream appare sintonizzata, ancora una volta, in chiave di Human Relations. Si insiste su parole-chiave consuete: flessibilità, opportunità, passione, immaginazione, partecipazione (in realtà mero coinvolgimento), responsabilità, motivazione, integrazione, teamwork. Una volta compreso il senso complessivo delle trasformazioni in corso, sarà possibile elaborare con cognizione alcune scelte di campo.

f) Sulle implicazioni macroeconomiche e sulle scelte di politica economica

In un programma di ricerca sulle frontiere della digitalizzazione dell’industria, può essere utile porre almeno in via introduttiva alcune questioni di ordine macroeconomico che sono di indubbio interesse per l’azione sindacale:

In Italia esiste un movimento “di sistema” verso la tendenza descritta, oppure si tratta soltanto un quadro di esempi “eccellenti”? Dopo trent’anni di “via bassa” alla competitività, quanta e quale parte del sistema manifatturiero italiano ha una propensione alla ricerca e sviluppo – e un capitale destinabile a questo scopo – tale da raccogliere le sfide? Analogamente, i “sacrifici” da lungo tempo imposti alla ricerca di base, in Italia, permettono oggi di pensare che si possa guadagnare e mantenere un livello adeguato di sovranità tecnologica?

Si viene configurando un aggravamento o comunque una trasformazione della dipendenza tecnologica? Dove sono i centri dell’innovazione digitale e di controllo dei big data? Quanto le imprese italiane hanno il controllo delle nuove tecnologie di produzione?

Fra i promotori dell’ipotesi dell’Industria 4.0 è ricorrente l’idea che l’incremento delle tecnologie di produzione induca processi di reshoring di fasi di produzione già delocalizzati in contesti connotati da minori costi di produzione. È un processo realmente osservabile?

Secondo gli apologeti dell’Industria 4.0, i processi di trasformazione dirompente (disruption) e la (presunta) moltiplicazione dei knowledge jobs guideranno una complessiva espansione del lavoro e della prosperità. Gli scettici paventano invece la prospettiva di nuove massicce espulsioni dal mercato del lavoro, nuove sperequazioni e dislocazioni. Il grado di sviluppo tecnologico raggiunto permette effettivamente fortissime riduzioni del lavoro necessario, e non hanno alcuna attendibilità le ipotesi di redistribuzione della ricchezza nel medio-lungo termine (c.d. trickle-down), che sono sempre molto ricorrenti (v. ad es. Moretti 2012, richiamato anche da Berta 2014). Tuttavia le tecnologie, di per sé, non hanno mai creato i mercati e la prosperità. Né di per sé producono disoccupazione e disuguaglianze. Nel quadro del “compromesso fordista”, ad esempio, le scelte tecniche delle imprese non sono state certamente più rilevanti di altre scelte di regolazione: politiche salariali, tutela delle condizioni di lavoro, politiche di welfare universalistiche, apposizione di vincoli e limiti all’estrazione di rendita, ancoraggio della moneta. Se si vuole mettere in discussione l’ottimismo determinista tecnocentrico degli apologeti dell’innovazione digitale, occorre probabilmente proporre anche un differente “modello” sociale e istituzionale. Bisogna affermare il presupposto che innovazione non è soltanto l’innovazione tecnologica e l’advanced manufacturing: innovazione è quel che contribuisce alla realizzazione di un’idea di società basata sull’incremento del benessere collettivo. Le tecnologie digitali sono importanti e la sovranità tecnologica è fondamentale per non generare nuovi “circoli viziosi” di dipendenza, ma è decisivo capire qual è la dinamica dell’accumulazione in cui i nuovi strumenti vengono impiegati, ed elaborare programmi di regolazione che incidano sulle modalità di accumulazione: ovvero non tanto sulla redistribuzione della ricchezza, ma sulla distribuzione della ricchezza “alla fonte”.

 

 

Riferimenti bibliografici

Berta, G. (2014), Produzione intelligente. Un viaggio nelle nuove fabbriche, Torino: Einaudi.

Bowman, A., Erturk, I., Froud, J., Johal, S., Law, J., Leaver, A., Moran, M., Williams, K. (2012), The Finance and Point-Value Complex, CRESC working paper n. 118 (http://www.cresc.ac.uk/medialibrary/workingpapers/wp118.pdf).

Masino, G., Zamarian, M. (2000), “La mediazione degli artefatti nella regolazione organizzativa”, in B. Maggi (a cura di), Le sfide organizzative di fine e inizio secolo. Tra post-fordismo e deregolazione, Torino: Etas, pp. 151-164.

Moretti, E. (2012), La nuova geografia del lavoro, Milano: Mondadori.

Thompson, J.D. (1967), L’azione organizzativa, Torino: Isedi (trad. it. 1988).

Thrift N. (2005), Knowing Capitalism, London: Sage.

 

 

 

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Category: Economia, Lavoro e Sindacato

About Angelo Salento: Nato a Maglie (Lecce) nel 1971, ha conseguito la laurea in Giurisprudenza nell'Università di Bologna e il Dottorato di ricerca in Sociologia del Diritto nell'Università Statale di Milano. È abilitato alla professione forense. Dal 2005 è ricercatore di Sociologia nell'Università del Salento, dove insegna Analisi sociologica dei processi di sviluppo. Nel 2014 ha conseguito l'abilitazione per professore di II fascia nel settore concorsuale 14 D1 (Sociologia dei Processi Economici, del Lavoro, dell'Ambiente e del Territorio). È membro garante del Collegio dei docenti del Dotttorato in Human and Social Sciences, Università del Salento. Ha insegnato in diversi master e corsi di dottorato. Nel 2015/16 è docente di "Economia e Innovazione Sociale" nella Scuola di alta specializzazione ISUFI, Università del Salento. Dal 2014 è membro del comitato editoriale della rivista "Sociologica" (ed. il Mulino). Nel 2014 è stato visiting researcher nel CRESC (Centre for Research on Socio-Cultural Change), University of Manchester. Dal dicembre 2014 è referente del Rettore per il Job Placement. Tra i suoi libri: A. Salento, Il campo e il gioco. Appunti su Bourdieu, Manni, San Cesario di Lecce, 2004; A. Salento e M. Longo (a cura di), Tutto sotto controllo. La sicurezza in una città di provincia, Carocci, Roma 2011; A. Salento, Finanziarizzazione e regolazione del lavoro: un’alternativa analitica alle vulgate del postfordismo, TAO Digital Library, Bologna 2012; A. Salento, G. Masino, La fabbrica della crisi. Finanziarizzazione delle imprese e declino del lavoro, Carocci, Roma, 2013.

Comments (1)

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  1. matteo ha detto:

    Buongiorno,

    Volevo sapere se c’erano in Italia dei casi concreti in cui un’azienda da un lato rimpatria la produzione e dall’altro investe in un impianto 4.0. In Germania è noto il caso Adidas, in Italia non trovo simili situazioni.

    Grazie a chiunque risponderà

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