Daniela Iotti: Musica come sostanza della materia

| 4 Luglio 2014 | Comments (0)

 

 

 

 

 

 

Riportiamo da “Inchiesta” aprile-giugno 2014 l’intervento di Daniela Iotti che fa parte del Dossier “Musica e scienza”

 

Daniela Iotti è musicologa docente di estetica della musica presso l’Istituto di alta formazione musicale Conservatorio “Claudio Monteverdi” di Bolzano

 

Il titolo del mio intervento, sebbene aperto nella enunciazione ipotetica, riformula con pronuncia moderna – il riferimento alla materia – antiche e consolidate concezioni filosofiche, ma anche veri e propri archetipi comuni a civiltà e popoli, taluni molto lontani tra loro sia dal punto di vista temporale che geografico.

Nella tradizione occidentale la musica, secondo la concezione pitagorico-platonica, innestatasi, poi, nella visione cristiana, è intesa come rispecchiamento dell’ordine e dell’armonia che regolano il cosmo, di questo intima essenza. L’individuazione di rapporti numerici alla base degli intervalli musicali, attribuita a Pitagora, ripresa, tra gli altri, da Agostino e quindi più specificamente da Severino Boezio, sta a fondamento di una teoria, suggestivamente denominata armonia o musica delle sfere, dominante per tutto il Medioevo e variamente riconsiderata poi dal Rinascimento fino al Settecento, secondo la quale le leggi del numero presiedono sia all’ordine dell’universo che a quello della musica (per tale motivo lungo tutto il Medioevo la musica, intesa come scienza teorica, ovvero studio delle proporzioni numeriche dei suoni, vale a dire gli intervalli, è studiata all’interno del Quadrivium insieme ad altre tre discipline della sfera matematica: Aritmetica, Geometria, e Astronomia).

Come estremi di questa tradizione di pensiero si propongono le definizioni di musica date da Agostino e da Leibnitz.

Per il primo: «Musica est scientia bene modulandi» (una possibile traduzione potrebbe essere: la musica è la scienza del movimento regolato secondo leggi precise); per il secondo: «Musica est exercitium arithmeticae occultum nescientis se numerare animi» (letteralmente, la musica è una pratica occulta – inconscia – della mente che non sa di calcolare).

Si tratta in entrambi i casi di formulazioni sintetiche, l’una e l’altra di derivazione pitagorica, di concetti assai complessi, impossibili da analizzare in questa sede, ma da cui si possono trarre almeno due osservazioni:

  • La musica è regolata da ben precise proporzioni numeriche, le stesse che regolano l’universo e conseguentemente la sostanza di ogni cosa. La musica ha a che fare, inoltre, con un movimento ben regolato, Agostino precisa: «bene si muove qualunque cosa che procede secondo la legge del numero nel rispetto proporzionale dei tempi e degli intervalli».

  • Numeri, proporzioni, regole si danno dentro uno statuto sensibile, tanto innervato alla natura umana da risultare, nella pratica stessa della musica, come un esercizio matematico occulto, inconscio, non consapevole, ma fortemente percepibile sottoforma di piacere, adesione emotiva o rifiuto.

In altri termini, se la musica, speculativamente considerata dalla matematica e dalla filosofia, a partire da Pitagora lungo tutto il Medioevo e oltre, è una chiave per indagare l’armonia, ovvero le leggi che reggono l’universo, e conseguentemente la natura intima, l’essenza delle cose, è logico ritenere che anche nella sostanza materiale della musica udibile, quella effettivamente e concretamente praticata col canto, con gli strumenti, con la danza, che è movimento ben regolato nello spazio, si possano riconoscere quelle leggi; la musica udibile è pertanto un microcosmo in cui si riflette o si sostanzia sensibilmente l’essenza dell’universo e dunque di ogni cosa esistente, pure dotati di una sostanza musicale, ma non udibile.

D’altro canto la musica, o meglio il suono, è materia posta in vibrazione e questa vibrazione i pitagorici cominciarono a misurarla e nel misurarla stabilirono delle relazioni tra i suoni e su tali relazioni costituirono la loro visione del mondo.

Torniamo dunque all’origine di questa tradizione di pensiero.

Pitagora pone a fondamento del reale il numero, vale a dire la proporzione ordinata dell’universo responsabile dell’armonia che lo governa. Dire armonia è già porre in relazione il cosmo (le sfere) con la matematica e con la musica, e non tanto perché il termine armonia rimanda, secondo il linguaggio corrente e in prima istanza a un ambito musicale, ma per le ragioni fondamentali, basate sulla proporzione numerica, cui abbiamo accennato sopra. Ci aiuta l’etimo: armonia deriva dal verbo greco antico mòze (ar-mòzein), che significa metter insieme, collegare, essere d’accordo; e ancora: unire in fidanzamento, in matrimonio; la radice è la stessa del termine greco per numero ar-ithmos, ma anche ar-te, ar-itmetica, e non casualmente, ar-mento. Armonia ancora, è contemperamento degli opposti, unione di elementi contrari; nella mitologia greca Armonia è significativamente figlia di Ares, dio della guerra e Afrodite, dea dell’amore. L’idea di armonia è racchiusa nel numero che è ἀρχή, principio di tutte le cose e in quanto uno, unico, espressione sia dell’identità di ogni cosa con se stessa sia dell’unità che racchiude gli opposti.

Si attribuisce a Pitagora, o comunque alla sua scuola, la scoperta del rapporto numerico che governa l’altezza dei suoni e la relazione tra essi, ovvero gli intervalli.

La scoperta, secondo alcune testimonianze, avvenne empiricamente, grazie al monocordo, strumento appositamente costruito per sperimentare sul suono. Tale apparecchio, molto semplice, era costituito da una corda tesa su una cassa di risonanza. I pitagorici si resero conto che sollecitando la corda nella sua interezza si produceva un certo suono, sollecitandone l’esatta metà si otteneva lo stesso suono ma più acuto, rapporto di 2:1, la nostra ottava, diapason per i pitagorici, ovvero un suono che ha esattamente il doppio di numero di frequenze rispetto allo stesso suono più grave (questo Pitagora non lo poteva sapere in quanto gli strumenti acustici per studiare le frequenze sonore, e molto altro ancora, risalgono alla seconda metà dell’Ottocento – a Helmoltz, in particolare, si deve l’inizio degli studi di acustica musicale su base scientifica), il fatto che l’antico filosofo ci arrivi per via induttiva e ne dia una descrizione aritmetica, conferma l’importanza del suo pensiero anche in ambito musicale); si presti attenzione al fatto che diapason, dal greco dia-pasòn significa attraverso tutto, tutti i suoni sottinteso, il che equivale ad aver intuito che tra un suono e lo stesso suono più acuto ci passano in mezzo tutti gli altri suoni udibili in quella gamma.

Procedendo nelle misurazioni pitagoriche la corda fatta vibrare nei suoi 2/3 darà un suono che è in un rapporto col primo, corda intera, di 3:2 , la nostra quinta, diapente, attraverso cinque; se sollecitata ai 3/4, rapporto 4:3, la nostra quarta dia tesseron attraverso quattro. Questi tre intervalli sono le consonanze sulle quali si fondava il sistema musicale greco e possono venire espresse dalla progressione 1:2 : 3:4, progressione che non solo contiene gli intervalli semplici dì ottava, quinta e quarta, ma anche le due scale alla base della musica greca: l’ottava più quinta (1: 2 ; 3) e le due ottave (1: 2 ; 4); inoltre su di essi viene costruita la scala cosiddetta pitagorica che sarà a fondamento della musica occidentale fino al Rinascimento, periodo in cui cominciano ad essere introdotti altri tipi di scale.

Perché questi rapporti e non altri? Vi è una logica molto coerente con l’impostazione pitagorica in quanto questi intervalli sono quelli più semplici, quelli più prossimi all’unità, all’identità dell’uno che per i pitagorici racchiude l’armonia universale (l’unisono, l’ottava che è pur sempre unisono); tali intervalli poi, suonano all’orecchio più puri, consonanti e la loro consonanza, rilevata sul piano percettivo, trova e riceve immediata rispondenza teorica, proprio per la loro vicinanza all’uno.1

La componente esoterica, presente nel pensiero pitagorico, ci porta ad un aspetto non secondario della sua visione del mondo e del suo insegnamento. Quando parliamo di Pitagora ci riferiamo in realtà ad un pensiero complesso e articolato riguardante molti ambiti del sapere (matematica, geometria, astronomia, musica) non necessariamente riconducibile alla sua unica persona, peraltro non documentata con certezza e avvolta nella leggenda. Si sa che visse nel VI secolo, nacque nell’isola greca di Samo, molto viaggiò, in Egitto e Asia minore entrando in contatto con la cultura e la civiltà dei Caldei, e che infine fondò una scuola, che da lui prese il nome, a Crotone nell’allora Magna Grecia. Di Pitagora non abbiamo scritti ma solo testimonianze indirette, trasmesse attraverso una robusta tradizione, dapprima orale poi scritta, presumibilmente fedele in quanto basata sul principio di autorità, l’ipse dixit, che ha permesso di conservare un corpus di teorie, oltre che di esperienze, racconti, memorie, aneddoti e leggende, attivi nei secoli. Molte nozioni di astronomia e matematica, forse lo stesso celebre teorema che porta il suo nome, gli vennero probabilmente dalla cultura caldea e dall’Egitto, come testimonia anche la teoria della metempsicosi, fatta propria dai pitagorici. Occorre notare inoltre che la Scuola pitagorica a Crotone e le altre che seguirono poi, rappresentavano una realtà comunitaria che conferiva agli studiosi che ne facevano parte, i caratteri di una setta religiosa; gli adepti dovevano attenersi a precise regole comportamentali ed etiche: erano tenuti, ad esempio, a rinunciare ai beni personali, ad osservare scrupolose regole alimentari, erano vegetariani (ma con il curioso e inspiegabile divieto di mangiare fave), praticavano esercizi fisici e mentali di purificazione e concentrazione, insomma tutti aspetti che fanno di Pitagora una chiave di volta significativa tra la tradizione sapienziale di matrice orientale e l’inizio del pensiero razionale astratto, proprio della tradizione occidentale.

Una chiave di volta che illumina il percorso di questo mio intervento riducendo i termini di distanza tra questa e le culture antiche e primitive che andremo a interrogare in merito al tema del titolo.

Eravamo rimasti all’identità sostanziale tra cosmo e musica; un’identità cruciale visto che la musica fin dall’antichità è tra le attitudini umane quella più titolata ad una comunicazione col divino, sia in quanto rispecchiamento dell’armonia del cosmo e fattore decisivo nella sua genesi, secondo la visione pitagorica, come abbiamo visto, sia come σοφία sofia, sapienza, espressione più vicina ad una dimensione superiore dello spirito e della conoscenza. Ho parlato di attitudini umane in quanto prima ancora che la musica assuma uno statuto di arte autonoma in senso moderno, il concetto di musica contempla uno spettro assai ampio dell’umana espressione e vale la pena ricordare che il termine musica deriva dal greco μουσική τέχνη musikè téchne, arte delle muse; le muse sono nove, cantano, e cantano soltanto; un canto mirabile e ineguagliabile, e per questo sono un tramite diretto tra dio e gli uomini, custodi del sapere e della memoria in quanto figlie di Zeus, la Sapienza e di Mnemosine, la Memoria, ma tra di esse ve ne sono alcune, Clio, musa della storia o Urania, musa dell’astronomia, che presiedono espressioni per noi moderni non propriamente artistiche o musicali.

Nel termine musica è dunque implicita l’idea di sapienza.

Socrate, come riporta un passo del Fedone, arrivava a identificarla con la filosofia; così il passo del Fedone «Perché mi capitava questo: più volte nella vita passata veniva a visitarmi lo stesso sogno, apparendomi ora in uno ora in altro aspetto; e sempre mi ripeteva la stessa cosa: ”O Socrate”, diceva, “componi ed esercita musica”. Ed io, allora, quello che facevo, codesto appunto credevo che il sogno mi esortasse e mi incitasse a fare; e, alla maniera di coloro che incitano i corridori già in corsa, così anche me il sogno incitasse a fare quello che già facevo, cioè a comporre musica, reputando che la filosofia fosse musica altissima e non altro che musica io esercitassi».2

Nel Timeo Platone, sulla scia dei pitagorici, attribuisce al Demiurgo la suddivisione dell’universo secondo gli intervalli dell’ottacordo diatonico dorico, attribuendo così alla composizione dell’universo le stesse leggi dell’armonia musicale; in altri termini, l’ordine e l’armonia cosmici sono interamente contenuti in alcuni numeri. L’armonia del mondo si esprime nella serie dei numeri interi, espressi in una serie di progressioni che sono le stesse che presiedono alle scale musicali di cui abbiamo visto sopra.

Fin qui la nostra tradizione occidentale. Ma la musica delle sfere o armonia delle sfere non si circoscrive all’ambito della tradizione occidentale a matrice pitagorica, altrimenti riformulata, costituisce un’immagine, un’idea, che assume valore di archetipo, attraversando secoli e culture con una persistenza meritevole di riflessione.

Se ancora Keplero nel xvii secolo ne propone una moderna riformulazione nell’ambito della nuova visione copernicana e la più recente attualità con la “teoria delle stringhe”, peraltro in parte confutata e non unanimemente accettata alla comunità scientifica, vi fa riferimento, molte civiltà antiche e primitive pongono a fondamento della loro immagine del mondo una stretta relazione tra natura del cosmo, sua genesi e musica.

Per Edward Witten cui è legata la teoria delle stringhe nella sua formulazione più completa, è ipotizzabile che tutto abbia origine dalle vibrazioni di un’unica entità: non ‘particelle’, punti privi di dimensioni, ma entità, infinitesimalmente piccole, a più dimensioni (stringhe o ancor meglio membrane). Oscillando, esse vibrerebbero in un continuum spazio-temporale a dieci dimensioni, la cui complessa struttura geometrica rifletterebbe le simmetrie fisiche. Vorrei far notare come il numero 10 rivesta anche per Pitagora un significato rilevante corrispondendo alla τετρακτύςtetraktys, numero triangolare, consistente in una disposizione geometrica che esprime un numero o un numero espresso da una disposizione geometrica; vale la pena ricordare come per Pitagora i numeri non siano solo grandezze astratte ma abbiano anche una valenza spaziale e siano dotati di estensione e forma. La tetraktys era rappresentata come un triangolo alla cui base erano quattro punti che decrescevano fino alla punta; la somma di tutti i punti era dieci, il numero perfetto composto dalla somma dei primi 4 numeri (1+2+3+4=10), che combinati tra loro definivano le quattro specie di enti geometrici: il punto, la linea, la superficie, il solido. Inoltre 10 rimanda all’unità in quanto 10 = 1+0 = 1.

Brian Greene, divulgatore di tale teoria, ne L’universo elegante intitola un suo capitolo, Nient’altro che musica: le basi della teoria delle superstringhe. Leggo come ulteriore suggestione, sebbene tale teoria non riscuota da tempo il consenso ufficiale della scienza, come testimonianza di quanto il mito, l’idea archetipica di una musica delle sfere, «non smetta di agire nel tempo come un lievito nascosto, un fermento di portata euristica apparentemente inesauribile».3

Nient’altro che musica: le basi della teoria delle super stringhe

La musica è da sempre una ricca fonte per chi medita sui misteri del cosmo. Dalla “musica delle sfere” dei pitagorici all’armonia della natura, spesso invocata nei secoli, l’uomo ha continuato a cercare la melodia nel mondo, nei moti regolari dei corpi celesti come nelle violente manifestazioni del mondo subatomico. Con la teoria delle superstringhe la metafora diventa straordinariamente vera: secondo questa teoria il mondo microscopico è pieno di piccole corde di violino, i cui modi di vibrazione orchestrano l’evoluzione del cosmo. I venti del cambiamento, in questo scenario, spirano in un mondo soffuso di melodie.4

 

Ben prima della razionalizzazione maturata con i pitagorici e col pensiero filosofico classico, la musica, più genericamente il suono o comunque un fattore acustico, riveste un’importanza fondamentale in molte cosmogonie di civiltà antiche non europee e di popoli primitivi.

A generare il mondo nell’antico Egitto è il dio Thoth con una risata; la tradizione vedica parla di un essere ancora

mmateriale che dalla quiete del non essere risuona a poco a poco convertendosi in materia, e così diventa mondo creato; il dio vedico della creazione Prajapati, si esprime sotto forma di inno che dà luogo a cielo, mare e terra; nella cosmogonia giavanese un creatore invisibile agisce per mezzo del suono delle campane; presso gli indiani Yuki, Toikomol emerge gradualmente dall’acqua generando le cose attraverso un canto incessante. Per gli aborigeni dell’Australia, in un mitico «Tempo del Sogno», leggendarie creature totemiche avrebbero percorso il mondo, infondendo vita col canto ad ogni cosa che incontravano.

Non sono che alcuni rapidi esempi tratti dagli studi assai documentati di etnomusicologia e antropologia comparata di Marius Schneider (1903- 1982), esponente di punta d questo indirizzo di ricerca; rimando ai suoi lavori fondamentali in questo campo.4 Leggo per ulteriori suggestioni direttamente da Schneider:

Il suono creatore del mondo

Un gran numero di informazioni sulla natura della musica e sul suo ruolo nel mondo ci viene dai miti della creazione. Tutte le volte che la genesi del mondo è descritta con sufficiente precisione, un elemento acustico interviene nel momento decisivo dell’azione. Nell’istante in cui un dio manifesta la volontà di dare vita a se stesso o a un altro dio, di far apparire il cielo e la terra oppure l’uomo, egli emette un suono. Espira, sospira, parla, canta, grida, urla, tossisce, espettora, singhiozza, vomita, tuona, oppure suona uno strumento musicale […] La

fonte dalla quale emana il mondo è sempre una fonte acustica […] Questo suono, nato dal Vuoto è il frutto di un pensiero che fa vibrare il Nulla e, propagandosi, crea lo spazio. E’ un monologo il cui corpo sonoro costituisce la prima manifestazione percepibile dell’invisibile. L’abisso primordiale è dunque un «fondo di risonanza».6

A ben vedere un’eco forte di questa cosmogonia sonora la troviamo anche all’inizio del Vangelo di Giovanni là dove si dice: «Nel principio era la Parola, la Parola era con Dio, e la Parola era Dio. Essa era nel principio con Dio. Ogni cosa è stata fatta per mezzo di lei e senza di lei neppure una delle cose fatte è stata fatta. In lei era la vita, e la vita era la luce degli uomini»; e più oltre: «e la Parola è diventata carne e ha abitato per un tempo fra di noi, piena di grazia e di verità». Se la “parola” giovannea è il λόγος (il testo greco usa questo termine per parola/verbo), ovvero il pensiero razionale, esso si manifesta tuttavia concretamente nella Voce creatrice e si fa carne, materia, e abita con l’uomo e nell’uomo.

Ampiamente documentata e studiata come costante trasversale a epoche e culture, appare dunque la stretta relazione, sub specie musicale o sonora, tra ordine dell’universo, sua creazione, sostanza delle cose e più specificamente, sostanza dell’animo umano, tre livelli apparentemente distanti tra loro ma che grazie alla musica, intesa in accezione ampia, conoscono livelli diversi e privilegiati di comunicazione.

Per quanto riguarda l’ultima relazione proposta, quella tra musica e animo umano, molte e complesse sono le

conseguenze che ne derivano e sia le civiltà antiche extraeuropee e primitive sia il pensiero occidentale, tenendo sempre come punto di riferimento Pitagora, rivelano ancora una volta strette e sorprendenti analogie. Inoltre, è proprio su questo terreno che si è fecondamente misurata la contemporaneità, attraverso discipline quali la musicoterapia o le indagini nel campo delle neuroscienze, di cui uno studioso di vaglia, Oliver Sacks, ci ha lasciato pagine riccamente documentate, si consideri soprattutto il suo recente e ponderoso Musicolfilia (Milano, Adelphi, 2000), da cui attingerò in seguito alcuni esempi.

Armonia delle sfere e armonia dell’anima allora, sia come rispecchiamento di quella in questa, ma anche come contemperamento delle energie contrastanti che di quest’ultima determinano la natura (ricordiamo che Armonia è contemperamento degli opposti, amore e guerra); contemperamento delle istanze spirituali e fisiche, allora, dell’equilibrio spirito-materia, anima e corpo, ancora una musica non udibile, un’armonia virtuale, per così dire.

Ma la musica, quella udibile e concretamente praticata in che relazione si pone tra l’inudibile musica delle sfere e l’altrettanto inudibile musica dell’anima?

Relazione assai stretta in quanto la musica, in virtù dell’affinità con l’essenza costitutiva degli altri due livelli, l’universo e l’anima, detiene un potere straordinario sull’animo umano, determinandone lo stato (così come in certe culture può influire sul livello cosmico, favorendo la pioggia o il bel tempo, incidendo su corso degli astri e così via).

La musica allora può ricostituirne l’armonia turbata, può consolare, acquietare, rallegrare ed eccitare, ma anche guarire o al contrario indurre ad azioni negative. La musica nelle sue varie estrinsecazioni interviene direttamente sulle emozioni e sui comportamenti umani, condizionandone l’agire e il sentire, influenzandone l’intima fisiologia, divenendo responsabile anche della salute del corpo oltre che dello spirito.

In altri termini la musica è dotata di precise funzioni psicagogiche che le sono riconosciute sia dalle civiltà antiche e primitive sia nell’ambito del pensiero classico a partire ancora una volta da Pitagora a cui è attribuita, per il tramite del pitagorico Damone, una delle teorie più importanti conosciuta come ethos dei modi, teoria ampiamente ripresa da Platone.

Per modi, detti anche Harmoniai, dobbiamo intendere, semplificando un po’, scale musicali, melodie configurate secondo precise successioni di intervalli, ma anche caratteristiche legate a particolari strumenti, determinati timbri e andamenti ritmici; in sostanza modalità diverse dell’organizzazione dei suoni risalenti a tempi molto più antichi rispetto all’età classica, in cui fu elaborata la teoria dell’ ethos dei modi e relative a varietà geografiche, etniche, culturali la cui eco è rimasta nei nomi che li contraddistinguono: dorico, frigio, lidio, i modi principali. Ebbene ognuna di queste complesse realtà musicali è dotata di precise caratteristiche responsabili di un’altrettanto ben determinata funzione psicagogica; essi cioè, a seconda del loro impiego, agiscono in maniera positiva o negativa sull’animo umano.

Una vasta tradizione di scritti, testimonianze, documenti considera il dorico il modo eroico, quello che sprona al coraggio, all’amor patrio, allo studio e alle buone azioni e per questo Platone lo pone al vertice della scala dei valori formativi escludendo invece categoricamente il modo Lidio. Una vasta sezione della Repubblica una delle sue opere più importanti, è dedicata alla funzione pedagogica della musica, il cui iter formativo, definito in base alle caratteristiche di vari modi, alcuni da esercitare altri da escludere, ha lo scopo di formare i futuri reggitori dello Stato, in un certo senso, dunque, musici.

Il modo frigio è calmante e consolatorio, ma anche portatore di svago sano ed e equilibrato; si narra che Pitagora si imbattesse in alcuni giovani che in preda all’ebbrezza del vino e spinti come spesso avviene dalla musica del flauto stavano per sfondare la porta di casa di una donna dai retti costumi; a questo punto Pitagora, o per certe altre tradizioni Damone, diede ordine al flautista di eseguire una melodia in modo frigio che col suo incedere lento e solenne ebbe l’effetto immediato di calmare l’eccitazione dei giovani riportandoli ad un comportamento equilibrato.

Il modo lidio è considerato dannoso in quanto induce all’ozio e ai piaceri smodati, per questo Platone lo bandisce dalla sfera educativa.

Come la ginnastica è la disciplina del corpo, la musica è la disciplina dell’anima e il suo potere si fonda per i pitagorici e per Platone sul fatto che ogni armonia/modo provoca un movimento corrispondente nell’animo, cioè ne imita un certo carattere. Imitazione che dai teorici antichi verrà giustificata in base anche al principio che la tensione delle corde della lira trova un suo corrispondente nella tensione dell’anima. L’anima è movimento e dal momento che anche il suono è movimento (ricordiamo anche la citazione di Agostino) c’è una corrispondenza diretta tra musica e anima.

Ancora Platone nel Simposio per bocca del Medico Erissimaco pone una stretta relazione tra medicina e musica, in quanto a ugual titolo capaci di creare una pacificazioni tra impulsi e moti discordi in un insieme integrato. In entrambi gli ambiti in cui operano, medicina e musica, il frutto positivo della loro azione di temperamento e riconciliazione è un «risuonare insieme», un «accordo tra elementi che suscita amore e consenso vicendevoli». Ogni sostanza vivente, infatti, ogni aspetto della natura appare mosso e sostenuto da una forza originaria di portata universale, identificabile in eros. Se alla medicina compete dunque la definizione di «scienza degli impulsi amorosi del corpo a riempirsi o a svuotarsi», la musica sarà «scienza degli impulsi amorosi riguardo all’armonia e al ritmo»; si intende in questo caso il termine armonia come sinonimo di modo, ovvero quel complesso di caratteristiche dalla funzione come si è detto, psicagogica.

Nel Simposio non si accenna alla teoria dell’armonia delle sfere, trattata nel Timeo, ma si può notare come l’unità del mondo animale e vegetale, l’alternarsi dei cicli vitali delle stagioni, nel segno di un unico principio di coesione universale, le cui norme di retto funzionamento sono possedute da musica e medicina in quanto scienza e tecnica (ἐπιστήμη e τέχνη), configuri nella materialità del mondo un tutto armonico in cui si rispecchia quell’armonia che governa il moto dei cieli e dei pianeti.

La teoria dell’Ethos dei modi tornerà in auge in epoca Rinascimentale quando la riscoperta della classicità greca porterà a riformularne molti concetti, e tra questi una diversa considerazione dei modi i quali, superata la visione pitagorica, si articoleranno secondo valenze prettamente musicali, della musica effettivamente praticata, intendo dire, trasferendo il potenziale psicagogico dei modi antichi dalla sfera morale o pedagogica alla specifica espressività del linguaggio musicale; una tendenza che si approfondirà nell’estetica barocca dove compito primario della musica sarà quello di “muovere gli affetti” (vedi tabella dell’ethos dei modi secondo alcuni teorici rinascimentali).

Come si può notare, i modi hanno mantenuto, con qualche aggiunta, i nomi greci, nomi peraltro usati anche durante tutto il l Medioevo, grazie a Severino Boezio che fa proprio il pensiero di Pitagora in un’ottica cristiana; il nome soltanto, ma non la costituzione intervallare. Questo particolare non secondario meriterebbe un approfondimento in quanto proprio sulla natura concreta, fisica e materiale dei modi, la teoria dell’ethos, basava il potere psicagogico della musica. Per non entrare in dettagli troppo tecnici dal punto di vista musicale ed estetico, si può semplificare dicendo che i modi medievali (dunque non quelli greci) nel passaggio al Rinascimento assumono caratteristiche espressive in base alle loro nuove conformazioni intervallari, passando da un livello etico ad una considerazione di tipo estetico.

A partire dal Rinascimento infatti, ci si allontana progressivamente da una visione paidetica di una musica considerata nei suoi effetti su corpo e spirito per approdare ad una idea di musica, come creazione umana, dotata di uno specifico statuto linguistico, progetto d’arte insomma; e se il valore formativo della musica non verrà mai meno, anche gli antichi affetti non saranno tuttavia ignorati, ma assunti come caratteristiche espressive all’interno delle motivazioni estetiche di un autore e di un brano; un processo che va di pari passo con la assunzione di consapevolezza del processo di finzione/identificazione che ogni forma d’arte implica: ad esempio già il concetto di catarsi aristotelica (di non facile spiegazione, peraltro, e indirizzato prevalentemente al genere della Tragedia) presuppone una razionalizzazione e un controllo del fenomeno emotivo che una musica o l’arte in generale può produrre. La consapevolezza della finzione di ogni forma d’arte, non nega tuttavia il forte coinvolgimento e la presa emotiva, ma li dirotta verso quella purificazione mentale, quell’alleggerimento che la fruizione della musica e dell’arte in generale porta con sé.

Una valenza espressivo/emotiva dei modi la si incontra ancora nell’Ottocento; in quest’epoca la grammatica musicale, l’evoluzione del linguaggio musicale, hanno raggiunto una complessità non paragonabile a quella di altre civiltà musicali – l’armonia tonale ne costituisce la base; ebbene dentro questa organizzazione, l’armonia tonale appunto, permangono due modi, retaggio dei 4 modi antichi, diventati poi 8 nel Medioevo e 12 nel Cinquecento, il modo minore e quello maggiore. Nel periodo definito Classico della Storia della musica (Haydn, Mozart, Beethoven, per intenderci), siamo tra Settecento e Ottocento, il modo minore è scarsamente praticato, quasi mai come tonalità d’impianto ed eventualmente assegnato ai movimenti lenti di un brano (delle 40 Sinfonie di Mozart solo due sono in modo minore): Il minore è sentito come espressivo di tristezza, malinconia, introspezione lirica, non adatto a definire l’insieme di una composizione, dal suo inizio e alla sua conclusione, che per equilibrio e buona forma sono assegnati al modo maggiore. Ancora nell’Ottocento, in ambito positivista, sulla scorta degli studi di acustica legati alla percezione musicale di Helmoltz, illustri musicologi come Hugo Riemann sostenevano la maggior bellezza e compiutezza del maggiore rispetto al minore e giustificavano il minore solo come complementare al maggiore.

Ma Torniamo alle civiltà antiche e primitive dove il processo di astrazione-razionalizzazione iniziato con Pitagora e Platone non è avvenuto e l’azione diretta della musica su corpo e anima è ancora tangibile in una infinita serie di situazioni di cui ancora Schneider ci illumina con una doviziosa messe di esempi. Qui la musica ha sempre funzioni magiche, apotropaiche; è in stretto rapporto con gli astri e ne influenza il corso; lenisce le ferite del corpo oltre che quelle dell’anima, è parte fondamentale e non decorativa (nel senso che proprio quel tipo di musica e nessun’altra serve all’uopo), di riti propiziatori. Il mago, santone, stregone è spesso identificato col musico e attraverso l’esercizio di ritmi, melodie, timbri, mai casuali o intercambiabili, ma assolutamente specifici e necessari, compie azione di guarigione, propiziazione, messa in fuga di forze negative e così via.

Un mago cantore è dunque più di un uomo comune. Essendo un risuonatore cosmico, quanto più aumenta la sua capacità di udire e di risuonare tanto più si irradia la sua potenza. Egli è in grado di riprodurre, almeno in parte, il linguaggio degli dei […] Per mezzo della “voce intonata” il mago riesce dunque a risvegliare gli dei e gli spiriti che animano gli oggetti e a identificarsi con loro […] Poiché ogni spirito è una particolare melodia, il timbro della sua voce e il motivo caratteristico del suo canto costituiranno gli elementi principali della composizione, nella quale il mago imprigionerà lo spirito.7

La dimensione archetipica di alcuni concetti legati alla sfera musicale, come quello ampiamente analizzato di armonia, o quello che identifica sostanza sonora e sostanza umana, concetti, come si è visto rintracciabili nella nostra come in innumerevoli civiltà di epoche e latitudini diverse, si conferma nella persistenza di questi nell’ambito della più recente attualità.

Oliver Sacks nel citato Musicofilia osserva come, pur in presenza di demenze gravi, la competenza musicale intesa, sia come capacità di esecuzione complessa su uno strumento, sia come capacità riproduttiva di canti e melodie, sia come capacità analitica nell’ascolto, rimangano intatte o addirittura potenziate. Egli parla di «straordinaria robustezza della base neurale della musica» e dei suoi nessi con le funzioni e disfunzioni del cervello, riscontrabile in numerosi casi che egli analizza con metodo scientifico. Così ci descrive la situazione di un pianista famoso:

Ormai ha 88 anni e ha perso l’uso del linguaggio …. ma suona tutti i giorni. Quando leggiamo insieme Mozart, va indietro e avanti con lo sguardo molto prima dei segni che prescrivono la ripetizione: Due anni fa abbiamo registrato tutto il repertorio a quattro mani di Mozart che lui aveva già inciso negli anni Cinquanta. Anche se il linguaggio ha cominciato a venirgli meno, a me piace il modo in cui ultimamente concepisce e realizza l’esecuzione: lo apprezzo anche di più della registrazione precedente.8

In un altro passaggio fondamentale Sacks sembra identificare o trovare solide somiglianze tra la base neurale della identità personale e la base neurale della musica, entrambe persistenti e in qualche caso potenziate nella demenza.

Una persona con l’Alzheimer può regredire a una «seconda infanzia», ma gli aspetti essenziali del carattere, della personalità e della persona, gli aspetti del sé, sopravvivono – insieme ad alcune forme di memoria quasi indistruttibili – anche nella demenza molto avanzata. E’ come se l’identità avesse una base neurale così robusta e diffusa – come se il proprio modo di essere fosse così profondamente radicato nel sistema nervoso – da non poter mai essere perduta, almeno fintanto che è ancora presente una certa vita mentale. […] In particolare la risposta alla musica si conserva anche quando la demenza è molto avanzata.9

E’ diventata popolare, anche in ambiti non specialistici, l’esperienza degli effetti della musica, soprattutto quella dotata di vivaci andamenti ritmici come il jazz o il rock, sulla Sindrome di Tourette. David Aldridge, di professione batterista jazz, ha esplorato questi temi in un diario intitolato Rythm man; così ci racconta Sacks:

Aldridge faceva spesso affidamento sulla musica, sia per mascherare i suoi tic, sia per incanalare la sua energia esplosiva: «Imparai a imbrigliare l’enorme energia della sindrome di Tourette e a controllarla come una manichetta antincendio ad alta pressione». Per Aldridge, imbrigliare la sindrome di Tourette ed esprimersi in improvvisazioni musicali creative e imprevedibili sembravano essere due cose strettamente intrecciate. «Il bisogno di suonare e il desiderio di sfogare l’incessante tensione della sindrome di Tourette si alimentavano reciprocamente, come in un incendio». Per lui, e forse per molti pazienti tourettici, la musica è inseparabilmente legata al movimento e a sensazioni di ogni genere 10.

Scorrendo l’indice di Musicofilia ci si rende conto di quanto ampio sia lo spettro offerto dalla relazione musica-cervello indagata da Sacks.

Una delle conclusioni di Sacks è che non esistano esseri umani privi dell’apparato neurale in grado di apprezzare o interagire con suoni e melodie e ciò è quantomeno singolare dato che la «musica non ha concetti, non formula proposizioni; manca di immagini e simboli, ossia della materia stessa del linguaggio. Non ha alcun potere di rappresentazione. Né ha alcuna relazione necessaria con il mondo reale».11

Concludo il mio intervento con un ultima citazione da Sacks che mi pare possa chiudere il cerchio interpretando in senso moderno e scientificamente documentato molte delle suggestioni pitagoriche con cui avevo iniziato; si tratta ovviamente di una chiusura retorica, sono consapevole che più di un comma pitagorico impedisce la perfetta chiusura del cerchio, ma se così non fosse e non fosse stato, saremmo ancora a Crotone con la prescrizione di non mangiare fave; mi auguro che il comma pitagorico (che io assumo ovviamente come metafora di un difetto di sistema, foriero, tuttavia, di novità e trasformazioni, come effettivamente è stato nei secoli, sia sul piano teorico, sia su quello della musica e dell’arte in generale) possa essere in futuro oggetto di approfondimento e discussione.

D’altra parte, sulla quasi totalità di noi, la musica esercita un enorme potere, indipendentemente dal fatto che la cerchiamo o meno, o che riteniamo di essere particolarmente «musicali». Una tale inclinazione per la musica traspare già nella prima infanzia, è palese e fondamentale in tutte le culture e probabilmente risale agli albori della nostra specie. Questa «musicofilia» è un dato di fatto della natura umana: può essere sviluppata o plasmata dalla cultura in cui viviamo, dalle circostanze della vita o dai particolari talenti e punti deboli che ci caratterizzano come individui; ciò nondimeno, è così profondamente radicata nella nostra natura da imporci di considerarla innata, proprio come Edward O. Wilson considera innata la «biofilia», il nostro sentimento verso gli altri esseri viventi. (Forse la stessa musicofilia è una forma di biofilia, giacché noi percepiamo la musica quasi come una creatura viva).12

 

NOTE

1 Anche se non c’è la possibilità di approfondire è forse il caso di osservare che in questo sistema in realtà c’è una falla: proseguendo nel circolo delle quinte per costruire la scala pitagorica, non si arriva di quinta in quinta a chiudere il cerchio delle ottave; slittando di quinta in quinta rimane fuori un una piccola porzione, quella che in acustica è stata chiamata comma pitagorico. Non ci addentreremo in questioni complesse di acustica musicale, ma è bene tenere presente che questa contraddizione è analoga ad un’altra in ambito geometrico/matematico di cui si accorse lo stesso Pitagora: si tratta del rapporto tra il lato del quadrato e la sua diagonale, due grandezze incommensurabili che aprono al tema dei numeri infinitesimali; un problema che, sempre secondo una tradizione leggendaria, il filosofo-matematico pare volesse mantenere segreto, ma è anche vero che il segreto faceva parte delle regole del sapere esoterico da lui praticato).

2 Platone, Fedone 60 61a, Bari, Laterza, 1967, p. 68.

3 Cfr. Francesca Magnani, Armonia delle sfere. Armonia mondana e umana tra visione e viaggio, in …..in principio era il numero, atti e contributi a cura di Monica Boni, Reggio Emilia, Supplemento al n. 5 di «Reggio Comune Città delle Persone», ottobre 2088, pp. 71-97.

4 Brian Greene, L’universo elegante. Superstringhe, dimensioni nascoste e la ricerca della teoria ultima del cosmo, Torino, Einaudi, 2000, p. 117. Vedi anche dello stesso autore La trama del cosmo: Spazio, tempo, realtà, Torino, Einaudi, 2004.

5 Marius Schneider, Il significato della musica, Milano, Rusconi, 1970; La musica primitiva, Milano, Adelphi, 1973; Studi su tre chiostri catalani di stile romanico, Milano, Arché, 1976.

6. Marius Shneider, La musica primitiva, cit,, pp 13-14

7 Marius Schneider, La musica primitiva, cit. pp. 67-70.

8 Oliver Sacks, Musicofilia, Milano, Adelphi, 2008, p. 384.

Ibidem, p. 382.

10 Ibidem, p. 266.

11 Ibidem, p. 14.

12Ibidem.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


 

 

 

Category: Musica e scienza

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