Tiziano Treu: Una internazionalizzazione molto più forte

| 5 Aprile 2013 | Comments (0)

 

 

 

16. Pubblichiamo integralmente gli atti del seminario C’è un futuro per il sindacato? Quale futuro? organizzato dalla Fondazione Claudio Sabattini e tenuto a Roma il 5 aprile 2013. La numerazione degli interventi corrisponde all’ordine in cui sono stati fatti.

 

In questo periodo si parla molto di Sindacato e si scrive anche troppo, però c’è bisogno di una riflessione sistematica perché l’incertezza è grande, soprattutto se si comincia a riflettere perché, se si fanno solo delle sparate, ci si consola solo, quindi grazie per questa occasione. Io ricordo Claudio perché è stato un interlocutore per me, soprattutto in sede istituzionale, ebbene, lui era uno che rifletteva, molto lucido, spesso provocatorio e difficile come interlocutore, però lo ricordo così.

Vorrei fare tre o quattro considerazioni: la prima, in questo periodo non solo il Sindacato, ma anche agli studiosi del Sindacato stanno guardando un sistema, che è il sistema sindacale, il sistema delle relaziono industriali, come un sistema costruito nel secolo scorso e siamo ancora lì perché i fondamentali materiali, gli ingredienti sono quelli.

La prima cosa su cui dovremmo vedere di convenire, al di là dei punti importanti, anche di dettaglio, è che c’è un po’ più di sindacalizzazione, un po’ meno, un po’ qua e un po’ là, è un po’ meglio la Germania di quanto non sia l’Italia, al di là di questo, insomma, mi pare che sono cambiati tutti i fondamentali su cui abbiamo costruito questo Sindacato e questo sistema di relazioni industriali, parlo di tutti e due, perché il Sindacato non esiste da solo per guardarsi l’ombelico, ma esiste per dare delle regole e per migliorare delle condizioni.

Ma questo prima della crisi, infatti un altro punto su cui vorrei che si riflettesse è che di non farci sommergere solo dalla crisi, certo, essa è molto pesante, ma i problemi che abbiamo e che sono di fondo risalgono a prima, in sostanza sono cambiati tutti i pilastri su cui si era fondato, faticosamente, un sistema nel secolo scorso e l’abbiamo sentito: nell’ambito nazionale perché è un Sindacato nazionale, le leggi di sostegno e di regolazione sempre nazionali, la grande impresa nazionale, adesso oscilliamo tra le multinazionali e le piccole imprese, quindi il Sindacato nazionale, i contratti nazionali.

Se questo è vero, di fronte ad un campo di gioco che ormai è sempre di più sovranazionale, sempre di più, perché ogni tanto leggo degli inserti che dicono che il Glo…(?) è ancora importante, però gli influssi sono sempre di più globali e non solo finanziari, quindi dovremmo ripensare i fondamentali.

Per cui, e anticipo una battuta conclusiva, dovremmo cercare di pensare un po’ a lungo perché, ripeto, al di là della crisi, siccome ci abbiamo messo decenni a costruire questo sistema, con dei buoni risultati in Europa, solo in Europa, adesso che dobbiamo guardare a tutto il resto del mondo e noi siamo ormai oltre i confini, tutto è più veloce, ma non è che queste cose le risolviamo con poco, quindi sguardo medio/lungo.

In questo contesto di cambiamento, l’avrete sentito anche qui, ma basta leggere, la tendenza prevalente degli osservatori è quella di un moderato o accentuato pessimismo, qualcuno lo chiama declino, qualcun altro lo chiama erosione, il mio amico Lucio Baccaro dice che stiamo andando tutti in braccio ai liberali, nel senso di liberisti, e quindi c’è un moderato o accentuato pessimismo.

Chi più, chi meno, però, reagisce a questa situazione, quindi il secondo punto che io vorrei indicare è che non è che tutti i sistemi sono investiti da questi problemi comuni con reazioni uguali, non è vero, o meglio, è vero che anche la Svezia non sta benissimo e neanche la Finlandia, però se guardiamo a tutti gli indicatori più importanti, non solo del Sindacato in senso stretto, ma alle regole, al welfare, alle uguaglianze, alla produttività, cioè al sistema su cui il Sindacato poi lavora, ebbene . . .

Qual è, allora, il mio secondo punto? Che ci sono dei sistemi e certe condizioni che resistono meglio. L’OCSE ha dedicato un intero Volume quasi, recentemente, a chiedere: “Quali sono i sistemi che hanno una maggiore resilience”, termine che si usa anche da noi, vuol dire “resistenza”, in sostanza, ebbene, per un po’ di tempo, perché non è detto che la resistenza duri molto, però sottolineo che alcuni sistemi resistono meglio non solo come salute del Sindacato, ma anche come difesa di quel modello sociale che nel secolo scorso è stato costruito prevalentemente anche dal Sindacato e dai partiti alleati.

Gli ingredienti, i fattori che spiegano questa maggiore resilience sono abbastanza individuabili, poi c’è un welfare di tipo più universalistico di quanto non abbiamo noi, quindi una maggiore politica ed attività istituzionale dedita alla uguaglianza delle condizioni, sia di partenza e talora anche di arrivo, c’è un’alleanza un po’ più stabile con i partiti amici, però, attenzione, i Paesi del Nord hanno avuto anche delle Destre (certo non quelle berlusconiane) che avevano un sistema così consolidato, ma hanno resistito bene anche ad alternanze con governi di Destra.

Molti di quei Paesi, poi, hanno resistito bene ed hanno Sindacati di servizio e Sindacati fortemente istituzionalizzati, in un sistema di Gatt i Sindacati sono dentro, dappertutto, persino più che da noi, che non ce la caviamo poi male.

Ultime due cose e che lo dica l’OCSE è abbastanza significativo: hanno un sistema coordinato, che parte del capitalismo coordinamento, ed hanno un sistema partecipativo molto radicato nei luoghi di lavoro, anche la concertazione, sì, ma sottolineo questo.

Ora, se ci sono questi quattro o cinque elementi che vi ho detto, e mi scuso della velocità, ma abbiamo scritto insieme con altri un libro in cui si parla di queste cose, credo che per resistere meglio nei prossimi 10 o 20 anni non sarebbe male che l’Italia si avvicinasse a questo mix di ingredienti, perché noi siamo abbastanza lontani da questo, abbiamo un welfare scardinato, i partiti che non sono sempre stati molto amici (vedi gli ultimi anni), le istituzioni funzionano maluccio, la partecipazione c’è in modo alterno, etc., comunque elementi di resistenza che ci sono in alcuni sistemi non sarebbe male averli per arrivare, possibilmente, a riprendere in mano un’altra ipotesi di modello di relazioni industriali e anche, se volete, economico.

Esistono, dunque, degli elementi che più a fondo possono sostenere una ripresa, un rinnovamento del sistema sindacale, quindi del prodotto dello stato sociale che è stato il frutto del patto del secolo scorso? Qui le analisi sono molto diverse, almeno per quello che leggo io e negli ultimi tempi ne ho lette un po’: anzitutto la base, su quale risorse il Sindacato del futuro, quello che vorrebbe riprendere l’iniziativa, e non solo resistere, può fare leva, essendo che il Cipputi non è più dominante, ammesso che regga ancora, anzi in qualche Stato regge?

Lì ci sono delle scuole diverse, io ne ho viste due. C’è chi dice: “Puntiamo sui nuovi soggetti”, che sarebbero o gli sfigati, cioè gli atipici, etc., oppure i super, quelli di alta professionalità, cioè quelle forze sociali che il Sindacato ha seguito poco perché si è sempre basato sui propri clienti tradizionali, oltre che sui pensionati e questa è un’ipotesi.

Qualcuno addirittura, come il mio amico Cella, dice: “Ritorniamo al craft, al sindacalismo di mestiere”, intendendosi per mestiere uno anche molto professionalizzato. Magari, provateci! Certamente questo richiede da parte del Sindacato un lavoro notevole, ho l’impressione che quel tipo di persone, soprattutto queste seconde, siano poco interessate, però si può provare.

L’Italia ha un guaio da questo punto di vista perché, se avete visto l’ultima analisi ISFOL, è preoccupante: mentre le tendenze, seppure moderatamente, dei Paesi più forti sono per una consistente presenza di alta professionalità, non è detto che siano tutti dei geni, ma insomma, noi invece caliamo, non solo non aumentiamo, ma caliamo, è qui che quindi rende un po’ difficile questa ipotesi.

L’altra ipotesi che è più americana, perché in Europa la sento meno, è che ormai il fattore di aggregazione non può essere più solo e neanche prevalentemente l’identità professionale, puntiamo su altre identità: la razza, il sesso, gli orientamenti personali.. quindi proprio spostare l’asse dell’espressione sociale collettiva su altre identità.

Queste io le vedo come ipotesi, però aggiungerei che quasi nessuna di queste ipotesi, almeno io non credo, può immaginare una ripresa del Sindacato senza che ci sia un aiuto istituzionale, perché nel secolo scorso tutta la costruzione è stata fatta con aiuto – magari non sempre coerente – di istituzioni, governi, etc., mi sembra difficile che in un mondo più difficile, con un contesto più ostile di tipo economico il Sindacato ce la possa fare, il Sindacato ed i suoi gruppi sociali vicini possano farcela, sarà perché ho un pregiudizio istituzionalista, ma del resto non sono il solo.

Anche lì, dunque, occorrerebbe reimmaginare un nuovo rapporto con le istituzioni e qui c’è un discorso difficile, però, perché qualcuno dice: “Benissimo, più presenza nelle istituzioni, più servizi e anche più finanza”, tra l’altro il Sindacato americano che non gode ottima salute ha avuto una forte presenza in alcuni cooperatori finanziari, che sono i fondi pensione, e poi. appena arrivato lo sfondamento, gli scandali, etc., si sono detti: “Ohibò, noi eravamo lì dentro, o non ce ne siamo accorti o siamo stati conniventi”, attenzione, questa è un’ipotesi.

Io personalmente, proprio perché credo nelle istituzioni come attore politico, non solo come attore di servizio, penso che qui occorrerebbe veramente fare un discorso a fondo, che ha a che fare con il tipo di patto che il Sindacato futuro fa con le istituzioni.

Il patto sociale, e scusate la semplificazione, del secolo scorso era prevalentemente distributivo e questo è un vizio in cui siamo caduti tutti noi, per esempio i giuristi e forse anche molti sindacalisti, l’economia va per conto suo, più o meno, certo deve essere un po’ regolata, ma va per conto suo, cresce, perché c’era l’idea che cresceva sempre, poi ha cominciato invece a battere i colpi in testa e noi facciamo dei grandi patti concertativi di tipo distributivo: pensioni, sanità, cose fantastiche, ma di tipo distributivo.

E’ possibile immaginare un tipo di patto, quindi di incidenza di questa possibile nuova Era del sindacalismo sui modelli produttivi, sui modelli sociali?

Qui qualche volta ci si è occupati del modello di sviluppo, però se guardate i decenni passati anche della CGIL, non parliamo dei contrattualisti alla CISL, quelli teorizzano e mi scuso con la CISL perché deformo, ma me lo posso permettere, cioè teorizzano proprio: l’impresa fa i fatti suoi, noi non vogliamo entraci più di tanto tanto (è vero che i cislini erano anche contro la co-gestione), quella fa il suo mestiere e noi bussiamo al tavolo per avere i frutti.

L’idea che un Sindacato si occupi – e ne ha anche diritto – di produttività, di quale tipo di produzione fare, insomma del modello di sviluppo, è apparsa nella storia della CGIL qualche volta, Bruno Trentin, sì, ma poco più che a livello letterario e scusate se questo è il mio giudizio. Se vogliamo immaginare in un prossimo futuro molto più difficile, con un capitalismo che funziona a singhiozzo, etc., un senso nuovo dell’azione politico-sindacale, in cui c’entrano anche le istituzioni, bisogna aggredire questo problema.

L’economia capitalistica c’è, però funziona molto meno bene di quanto anche noi immaginassimo e bisogna metterci il naso, non so come, bisogna immaginarlo, ma non è facile.

Ultima cosa, sempre per immaginare un futuro lontano, ma non irraggiungibile, che qui non ho sentito, ma secondo me è il vero cambio di passo: se è cambiato il cambio di gioco, bisogna cambiare il campo di gioco, cioè io vedo la necessità di una internazionalizzazione molto più forte, almeno a livello di grande blocco europeo, continentale, etc., ma non ci siamo, non abbiamo nemmeno cominciato.

Mi dispiace perché io sono un europeista convinto e non deluso, ma mentre la costruzione europea è andata avanti lentamente e, tra l’altro, ha resistito abbastanza perché il welfare europeo resiste, e guardate che la spesa sociale, nonostante le aggressioni, è ancora ben messa e adesso peraltro c’è un riflusso nazionalistico, come vediamo, il Sindacato è ancora nazionale, non c’è nessuna effettiva delega o trasferimento di poteri e di azioni.

E’ difficile, ma se vogliano sopravvivere, oltre alla possibile resilience, per vedere qualcosa di nuovo, occorre andare lì. E anche i governi, anche le alleanze che hanno sempre sostenuto nel secolo scorso il Sindacato, ebbene, ormai i governi che dovrebbero essere nostri alleati, anche se sono nostri nemici, sono sempre più condizionati, non è che il nostro governo è indipendente, allora l’andare oltre i confini serve anche per avere interlocutori decenti.

Ho letto una cosa di uno spagnolo interessante, c’è con questa globalizzazione la pressione verso il basso, the race to the bottom, la corsa al ribasso, concorrenze al ribasso, vera come pressione, e allora lui dice: “L’unica cosa – sempre a medio periodo – per contrastare questa race to the bottom è la race to the top,”, cioè agire perché i Paesi che sono in fondo comincino a correre verso di noi, quello che si fatto sta succedendo comunque per motivi automatici, ma se noi e tutti voi ci investissimo di più non sarebbe male.

Ho detto due o tre cose banali, ma soprattutto l’ultima è un vero salto di scala: o si fa questo o restiamo nel Novecento e siamo sconfitti! La prospettiva è inevitabile, a mio avviso.

Se non si fa questo, si fa fatica e non ci stanno tutti, l’Europa non ci aiuta, purtroppo non ci aiuta molto, non è detto che poi ci sia un disastro generale, può essere anche che ci sia una crescita, un’accentuazione dei dualismi, in fondo tutte le tendenze strutturali, molte dell’economia delle società portano a diseguaglianze, a divaricazioni, aiutate naturalmente dalla politica, e l’Italia è particolare in questo, noi abbiamo zone forti, zone deboli, il pubblico impiego, le piccole imprese, non è che il sistema di relazioni industriali è unitario in Italia, è diviso come è divisa l’Italia, allora, a maggior ragione bisognerebbe evitare questa deriva.

Se, infatti, non facciamo questi ragionamenti di fondo, la deriva è in quella direzione. Tanto più che in Italia non abbiamo alcune condizioni che gli altri Paesi hanno preso dal secolo scorso, per esempio non abbiamo le regole, quelle di cui avete parlato voi, non abbiamo le regole della rappresentanza, su come si sta in fabbrica.

Una delle cose che mi ha colpito di più, facendo un po’ di ricerche recenti in Germania, sul campo, è che non è la partecipazione nei Consigli di sorveglianza che è importante, perché poi riguarda solo le grandi aziende, ma è che sopra i 5 dipendenti la legge ha imposto da decenni, credo che siano stati sempre 5, forse dopo era un po’ diversa la soglia, la presenza di Consigli eletti che hanno potere di intervenire fino ad un potere di veto, in quasi tutte le questioni di tipo produttivo-organizzativo.

Questa è una cosa enorme che, secondo me, è la cosa più importante, almeno per la resistenza e forse per la rinascita, invece, e questo è un errore che ha fatto fare il Sindacato, abbiamo sempre pensato di essere autosufficiente, che bastassero le RSU e non abbiamo mai pensato che la legge potesse dire, come si era pensato ai tempi della Commissione interna, che si imponesse per legge anche nelle piccole aziende una presenza elettiva, non una presenza sindacale, che è anche più facile da veicolare in un momento come questo dove anche l’opinione pubblica non è molto amica del Sindacato. Speriamo bene!

 

 

 

 

Category: Fondazione Claudio Sabattini

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