Donata Meneghelli: Bartleby, Bologna e il Partito Democratico

| 5 Febbraio 2013 | Comments (7)

 

 

 

14. Sulla vicenda di Bartleby, negli ultimi giorni sono state scritte molte cose, e anche molte scempiaggini. A queste ultime (talvolta, come l’articolo di Nicola Muschitiello pubblicato sabato scorso dal “Resto del Carlino”, di una volgarità intellettuale e di un’insipienza che lasciano trasecolati) non mette conto nemmeno replicare, perché significherebbe abbassarsi a un livello inaccettabile per chiunque conservi ancora un po’ di dignità culturale se non umana, sebbene esse stimolino riflessioni interessanti sul profilo di molti soi-disant “intellettuali” italiani (su tale questione, si veda, in questo stesso sito, il bel saggio di Remo Ceserani). Ma l’articolo di Sergio Lo Giudice uscito il 3 febbraio sull’“Unità” (ripubblicato su www.inchiestaonline.it) merita una risposta: per i suoi contenuti e per chi lo ha scritto.

Conosco Sergio da molti anni e lo stimo, abbiamo condiviso momenti bellissimi della nostra giovinezza, quando il Cassero di Porta Saragozza era un luogo in cui ci si incontrava, si ballava e si discuteva fino a notte fonda, si produceva contro-cultura, creatività, amicizia; in cui si incrociavano donne e uomini, omosessuali ed eterosessuali, in cui l’idea che “il personale è politico” veniva praticata ogni giorno nelle forme più diverse. Proprio per questo, per tutto ciò che quell’esperienza dovrebbe averci lasciato (a lui, che ne è stato uno dei protagonisti, ancora più che a me), il suo articolo mi ha stupito, anzi mi ha deluso. Non posso qui analizzare le sue affermazioni una per una, senza contare che alla lunga sarebbe noioso e avrebbe l’aria di una personalizzazione, lontanissima dalle mie intenzioni. Mi limiterò dunque a riprendere rapidamente alcune delle sue argomentazioni, che necessitano di qualche rettifica, quanto meno in nome di una maggiore chiarezza.

Che Bologna abbia “in campo politiche virtuose nella relazione tra realtà giovanili autogestite e amministrazione” mi pare complessivamente discutibile; oppure deve trattarsi di una virtù talmente sottile, talmente modesta, da passare inosservata. Da tempo, ciò che vedo negli spazi pubblici di Bologna è una serie interminabile di stand commerciali, fiere del cioccolato, fino a quel pezzo di treno freccia rossa (o forse era Italo?) a grandezza naturale che, sotto Natale, troneggiava davanti a San Petronio, e che in una delle più belle piazze d’Italia faceva l’effetto di un pugno nello stomaco. O, ancora: ciò che vedo è una “cultura” sclerotizzata, paludata, svuotata di ogni forza critica, come di ogni fantasia e imprevedibilità, che consuma i suoi stanchi riti tra fondazione Carisbo e notti bianche pre-confezionate. Negare che a Bologna ci sia un problema di spazi e di bisogni, che la dialettica tra istituzioni e movimenti sociali vada sempre più restringendosi, sulla scorta di un modello rigidamente top-down, significa coprirsi gli occhi e non voler accorgersi di ciò che sta accadendo. Il problema, del resto, va ben al di là del collettivo Bartleby. Ci sono numerose altre realtà che, negli ultimi anni, hanno posto problemi analoghi, si pensi solo alla situazione della rete Atlantide.

Bartleby, tuttavia, solleva una questione supplementare, legata alle sue radici e alla sua identità marcatamente universitarie. E qui arriviamo al secondo punto. È estremamente sintomatico che nell’articolo di Segio Lo Giudice non compaia nemmeno una volta la parola “studenti”: sintomatico di una rimozione che viene da lontano. Bologna porta in palmo di mano l’Alma Mater (e lo credo bene, senza l’università la città scomparirebbe!), ma sembra considerare gli studenti solo come il perno intorno a cui ruota un utile indotto. Ha mai fatto, il Comune, di concerto con l’Ateneo, una qualche politica per contrastare il caro degli affitti? No. Se lo ricorda, qualcuno, che pochi anni fa a Bologna una studentessa fuori sede è morta per le esalazioni di una vecchia stufa, in una stanza che probabilmente pagava 400 euro al mese? Sembra di no. Ha mai attivato, il Comune, delle facilitazioni economiche per l’utilizzo dei trasporti pubblici espressamente dirette agli studenti? No. Una parte di quegli studenti (chi ne ha avuto la forza, la voglia, il coraggio), ha deciso, come si diceva una volta, di riprendersi la propria soggettività, e anche la città in cui vive. Si tratta di un fenomeno che la giunta guidata dal sindaco Merola dovrebbe osservare con molta attenzione, invece di giocare a ping pong con l’Ateneo.

Veniamo adesso alla “proposta” dello spazio in zona industriale Roveri, a cui – secondo Sergio Lo Giudice – “si è reagito con troppa leggerezza”. Non tornerò sulla evidente assurdità di quella proposta, su cui si è già espresso un lucidissimo comunicato dei Docenti Preoccupati nel quale mi riconosco pienamente. Qui voglio sottolineare un altro aspetto, a dir poco singolare. Le periferie, scrive Sergio Lo Giudice, sono “aree della città in cui questa amministrazione vuole costruire nuove centralità urbane”. Benissimo! Se l’amministrazione ha un piano di riqualificazione delle aree periferiche, ce ne rallegriamo tutti sinceramente, e magari – in quanto cittadine e cittadini – vorremmo anche saperne qualcosa di più: di cosa si tratta? Come pensa di procedere la giunta? Che cosa si intende con “periferia”? Al di là del fatto se un tale piano esista o meno, comunque (cosa di cui al momento dubito), quello che non si riesce davvero a capire è perché mai proprio Bartleby dovrebbe essere la testa di ponte di una simile operazione. Che il comune cominci a costruire le “nuove centralità urbane”: poi magari ne riparliamo.

Anche sulle famose “regole democratiche” che tanti in questi giorni stanno invocando, ci sarebbe parecchio da dire. Viene in mente un film di Sergio Leone, che si apre con una frase di Mao: “La rivoluzione non è un pranzo di gala”. Molte altre cose non lo sono. Dipingere la dialettica tra istituzioni e movimenti o gruppi autorganizzati, dialettica strutturalmente conflittuale (altrimenti non si darebbero movimenti né gruppi autorganizzati), come se fosse la stipula di un contratto presso un notaio della buona borghesia o una riunione del circolo del bridge – “prego”, “si accomodi”, “ma s’immagini”, “dopo di lei” – mi pare una semplificazione, se non una vera e propria mistificazione. Significa dimenticare che le istituzioni non rappresentano mai tutti, e mai tutti allo stesso titolo o nello stesso modo; che sono caratterizzate da una sorta di inerzia, che difendono se stesse, che “danno” o rispondono nella misura in cui si riescono a modificare i rapporti di forza politici.

Infine, un’ultima osservazione. “Parlare del sindaco di Bologna come di uno stalinista […] fa sorridere”, leggiamo nell’articolo di Sergio Lo Giudice. Premesso che in verità non c’è da stare molto allegri, in un certo senso è vero: lo spettro che oggi incalza il Partito Democratico è il neoliberismo, molto più che lo stalinismo. Tuttavia, il vergognoso ricatto fatto a SEL (e da SEL vergognosamente accettato) dà da pensare. Talvolta la sensazione è che il Partito Democratico abbia conservato alcuni degli aspetti o dei metodi più deleteri del vecchio Partito Comunista, coniugandoli con il culto del mercato, il disinteresse per la vita delle persone, la difesa delle logiche aziendaliste, la dismissione non solo di ogni identità di classe ma di qualunque radicamento sociale. Quanto agli appelli all’umiltà, basta, per favore. Oggi, nella situazione in cui viviamo, i giovani di tutto hanno bisogno tranne che di umiltà, pericolosamente vicina – nel contesto attuale – a rassegnazione, deferenza, riduzione delle aspettative e dei desideri. Ancora meno hanno bisogno di maestri che gliela insegnino: ce ne sono già troppi.

 

 

Category: Bartleby a Bologna

About Donata Meneghelli: Donata Meneghelli è professore associato di Letterature comparate e Teoria e storia dei generi letterari all’Università di Bologna. Dal 2003 al 2005 ha insegnato presso il Master europeo su letteratura e immagine (LITEVA (Literary Text in the Visual Age), coordinato dall’Università di Leuven, occupandosi in particolare dei rapporti tra testo narrativo e fotografia. I suoi interessi si concentrano sulla teoria e la storia del romanzo: in questo ambito si è occupata della riflessione sul romanzo di Henry James, di narratologia, del nouveau roman, degli usi critici della biografia, dell’adattamento teatrale e cinematografico, approfondendo i rapporti tra letteratura e cinema, di letteratura e pittura tra ilXIX e il XX secolo, del romanzo italiano contemporaneo. Ha scritto saggi su Joseph Conrad, Jean Rhys, Alain Robbe-Grillet, Sophie Calle, la letteratura italiana della migrazione. Tra le sue pubblicazioni: Una forma che include tutto (Il mulino, 1997), Teorie del punto di vista (La nuova Italia, 1998), Opere e vite (numero monografico della rivista «Inchiesta letteratura», Dedalo, 2000), Finzioni dell’io nella letteratura italiana dell’immigrazione («Narrativa», n. 28, 2006), Racconto/Narrazione, in Dizionario tematico della letteratura, vol. III (UTET, 2007), Sophie Calle: tra fotografia e parola, in Guardare oltre, a cura di S. Albertazzi e F. Amigoni (Meltemi, 2008), La tension entre la forme et l’informe dans le roman du XXe siècle («Formules», 2009). Attualmente svolge ricerche sui rapporti tra letteratura e arti visive e sta preparando un volume sulla teoria del racconto in diversi campi disciplinari. È anche traduttrice dall’inglese e dal francese di testi critici e letterari.

Comments (7)

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  1. A ben guardare ha detto:

    Non voglio entrare nel merito di una questione che è sicuramente complessa, vorrei giusto offrire una prospettiva diversa, per tentare di arricchire il confronto su questo tema.
    Prima di Bartleby, negli stessi locali di via San Petronio Vecchio, c’era la sede dei volontari della Croce Rossa. Persone che frequentavano quei luoghi per aggregarsi, formarsi e dare il proprio contributo al servizio di emergenza del 118.
    Stiamo cioè parlando di studenti, lavoratori, pensionati che, senza percepire un euro, impiegano il proprio tempo libero (serate, nottate, week end) per fare servizio di ambulanza a vantaggio della collettività. Ora, qualcuno sa dove si è trasferita la sede della Croce Rossa dopo essere stata sfrattata da via San Petronio Vecchio? Beh, guarda caso proprio in zona Roveri.
    E, incredibile a dirsi, i volontari hanno continuato a frequentare la nuova sede anche se dislocata in periferia.
    Ora. Chiedo scusa, ma se il solo problema di Bartleby è quello di non avere una sede nel centro della città, allora mi chiedo quale sia la differenza tra loro e i borghesi giocatori di bridge citati nell’articolo.
    Anzi, a guardare bene una differenza forse c’è: la sede del circolo del bridge di Bologna è a Quarto Inferiore di Granarolo dell’Emilia e non si è mai sentito un giocatore di bridge lamentarsi

    • Passer ha detto:

      E che continuino a non lamentarsi i giocatori di bridge, se sono contenti.
      Quindi non facciamo la gara a chi è l’associazione più sfigata che non ha una sede: ce ne sono già abbastanza.
      Il discorso è un altro: il centro storico ormai è popolato solo da realtà legate al commercio, e smettiamola di dirci baggianate.
      Parliamo del fatto che il centro si sta svuotando di qualsiasi forma di interesse culturale o sociale.
      Parliamo del fatto che Bologna si sta uniformando sempre più allo standard della città media di provincia norditaliana: WOW.
      Poi se la maggior parte dei bolognesi si accontentano degli incontri che fanno da Coop Ambasciatori o da Feltrinelli buon per loro: ma la produzione di conoscenza a Bologna non mi pare sia legata solamente a quel mondo, anzi, non lo è mai stata.
      Voglio vedere quando gli Erasmus smetteranno di venire a Bologna e quando i fuorisede decideranno di andare in una città più aperta e ricettiva, già, voglio proprio vedere quanto piangeranno i commercianti, gli amministratori e i benpensanti della città rossa.
      Ma fatemi il piacere.

    • Pietro ha detto:

      il problema logistico dello spostamento in zona roveri non è indifferente: tieni conto che il target cui si rivolge bartleby è in larghissima maggioranza composto da studenti, la maggior parte dei quali fuorisede, che in quanto tali non hanno a disposizione un’auto per raggiungere la zona. spostare bartleby lì significava ammazzarlo.
      stessa cosa non si può dire del circolo dei volontari della croce rossa, che presumo (forse sbagliando, non so) in media anagraficamente più “maturi” e quindi più liberi nello spostamento dal centro storico (in pratica, automuniti)

  2. sergio ha detto:

    per ‘a ben guardare’ il problema non è mai stata la periferia ma il tipo di periferia (un capannone in mezzo a capannoni). l’articolo rimanda a quanto hanno detto dai docenti, io mi limito a constatare che la posizione di bartleby a riguardo ha convinto tutti quelli che bartleby lo conoscono, ci sono passati e hanno in mente una città un pò meno triste di quella che è. però mi sembra che i problemi posti da bartleby. e dall’articolo vadano ben oltre questa questione, francamente capziosa

  3. fabio libasci ha detto:

    orgoglioso di leggere le parole della mia insegnante di Letterature comparate, conscio come la sua sia un voce che sempre meno si sente attutita da troppe e volgari voci in grado di parlare sempre e solo della doxa, quella si imperante e disgustosa.

  4. Sergio Lo Giudice ha detto:

    Una mia controreplica ( che non sono riuscito a postare qui) su http://www.facebook.com/notes/sergio-lo-giudice/bartleby-gli-spazi-e-le-regole/10151291144734562

    • Pietro ha detto:

      via collamarini è fisicamente pressochè irraggiungibile da chi è esclusivamente bicimunito. dai, è oltre l’A14! possibile che non ci sia nulla di proponibile in centro?

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