Alan Ele: La donna invisibile del Perù

| 29 Marzo 2013 | Comments (0)

 


 

Diffondiamo questo testo di Alan Ele su Máxima Acuña Atalaya, la señora Chaupe nominata  Donna dell’anno 2012.  Il testo è stato pubblicato il 25 febbraio 2013 su celendilibre.worldpress, è stato tradotto sul sito www.kanakil.it e ripreso da http://comune-info.net del 27 marzo 2013. La foto pubblicata qui sotto è quella scattata da Alan Ele nella abitazione della señora Chaupe a 4000 metri di altezza e mostra l’onorificenza ottenuta nel 2012. Le altre foto sono sempre della señora Chaupe.

 

Un grande reportage racconta la resistenza di Máxima Acuña Atalaya, la señora Chaupe, all’aggressione delle squadre speciali della polizia peruviana che hanno spaventato i suoi figli e i suoi vicini per costringerla ad abbandonare la sua terra. La polizia e i giudici sono al servizio dell’impresa mineraria transnazionale Yanacocha, che vuole avvelenare la terra e l’acqua di Máxima e degli altri «comuneros» per estrarre minerali preziosi. Nella prima settimana di marzo, a Cajamarca, un’assemblea nelle lagune della zona di Conga ha concesso quindici giorni di tempo all’impresa mineraria per ritirare le sue attrezzature. «Io sono una donna povera ma continuerò a lottare fino a che le squadre speciali non mi ammazzeranno», ci ha detto la señora Chaupe.


Le montagne rubano l’anima ai cristiani quando non avanzano rapidamente; questo afferma, fra lo scherzoso e il serio, uno dei robusti comuneros che avanza deciso fra monti e dirupi lungo il sentiero che conduce nel cuore di Conga, la laguna Azul. Un altro comunero, bolo di coca in bocca e fiaschetta in mano, gli risponde che queste sono stupidaggini, che si deve procedere oltre. (Il bolo di coca è la tradizionale pallina di foglie di coca e calce che gli andini tengono in bocca masticandola, ndt). Osserviamo come gli ultimi della carovana si vanno perdendo fra enormi e verdi colline. Siamo rimasti soli.

Santiago, un antropologo carismatico newyorchese, avanza con passo accelerato per raggiungere la prima comitiva con alla testa il leader ambientalista Marco Arana e i dirigenti Milton Sánchez e Eddy Benavides, assieme a più di cento comuneros che hanno come meta la laguna El Perol per realizzare un’Assemblea per il coordinamento della resistenza. Santiago, con una folta barba castana, sta concludendo un dottorato sui conflitti sociali e ha scelto Cajamarca come uno de suoi centri di studio. È un tipo ridanciano, fino a quando non deve parlare dei diritti del campesino peruviano sull’acqua e sulla terra, allora la sua espressione ritorna seria.

Alcuni chilometri più avanti, documentaristi canadesi ed europei usano dei muli per trasportare i bagagli e gli strumenti. Hanno tale resistenza al freddo e all’altitudine che potrebbero competere con gli stessi comuneros della zona. Siamo rimasti indietro. Qualcuno aveva pronosticato – sbagliando – due ore di cammino dalla comunità di Jadibamba, dove erano stati lasciati i veicoli, fino alle famose lagune in conflitto per il progetto minerario Conga. Per alcuni, la marcia è durata cinque o sei ore, fino al giungere della notte e della nebbia, che hanno occultato perfino l’ultimo squarcio di orizzonte.

Ore prima, ancora con la luce del pomeriggio, era giunto un momento in cui noi ritardatari ci eravamo arresi e avevamo deciso di attendere il freddo e la notte alle intemperie della falda, ma una delle guide, forgiato nelle arti misteriose di Huancabamba, aveva brindato alla montagna perchè ci “liberasse” e ci lasciasse proseguire. Era necessario brindare con l’Apu (gli Apus sono le montagne divinità, ndt) con abbondante pisco, bolo di coca e aggiunta di caramelle di limone. La cosa più probabile è che la suggestione ci abbia aiutato a recuperare le forze ed a proseguire con passo deciso attraverso altopiani desolati, acquitrini e pantani che bagnavano fino alle ginocchia.

La visione di due silouettes all’orizzonte era stata come la sorpresa di scoprire un nuovo continente. Erano due comuneros che stavano filmando il territorio. “Questi lavorano per la miniera”, commenta la guida. Gli uomini sono giovani e stanno diventando un po’ nervosi. Stiamo aspettando il nostro alcalde, dicono. Non vogliamo iniziare un diverbio, chiediamo un’indicazione e ce la danno. Ci segnalano una strana oasi in mezzo a tanta solitudine, una strada sorvegliata da due camionette della Dinoes (le forze speciali della polizia peruviana, ndt).

Avanziamo attraverso altri picchi rocciosi maestosi e ruscelli, e infine costeggiamo la strada. Subito dopo scavalchiamo uno steccato e saliamo fino a una foresta di massi, la stessa che era servita da fortino affinchè gli emblematici Guardiani delle lagune potessero accamparsi in modo rustico, fra pali e teli di plastica, e non si avvicinassero i macchinari della miniera e gli effettivi di polizia contrattati da Yanacocha. Una casa solitaria si erge su queste alture della comunità. Si chiama Tragadero Grande, e appartiene alla famiglia Chaupe. È l’ultima casa del luogo. Il sole, che è di una brillantezza sfavillante, sta per nascondersi dietro l’enorme cordigliera che incornicia la laguna Azul. I suoi raggi rimbalzano appena sopra l’acqua e la nebbia che ci avvolge è un basso fumo strisciante. In questa piccola foresta di pietre incontriamo Máxima Acuña Atalaya, la donna simbolo della resistenza cajamarquina.

Máxima Acuña è sarta, ha 42 anni ed è originaria del casale di Marcucho, distretto di Sorochuco – Celendín. Ha l’espressione dura ma un sorriso amabile, in casa la accompagnano i suoi quattro figli e il marito, l’agricoltore comunero Jaime Chaupe Lozano; è conosciuta in varie parti del mondo come la Señora Chaupe, semplicemente. La pioggia torna a cadere, oggi la ventunesima volta, e la Señora Chaupe ci invita a ripararci sotto un telo di plastica azzurro. Il freddo è incredibilmente intenso e, sotto quella plastica, ci consente di rivolgerle qualche domanda.

 


D. Quale è stato il risultato del processo giudiziario relativo a queste terre con l’impresa mineraria Yanacocha?

La procura e i giudici di Celendín, invece di seguire il mio caso, dicono che hanno perso i documenti che ho presentato. Alla fine hanno dato ragione agli ingegneri di Conga sul fatto che io sto usurpando i loro terreni. Non è vero. Hanno emesso una sentenza con pena sospesa per la quale io, ogni certo periodo di tempo, devo firmare. Devo inoltre pagare 200 soles (circa 70 euro, ndt) come indennizzo civile alla miniera. Mi dica lei, esiste giustizia per i poveri?

D. A chi appartiene esattamente il terreno sul quale ci troviamo?

La terra che stiamo calpestando, dove stanno i nostri compagni delle ronde, i Guardiani delle lagune, è di mia proprietà; e confina coi terreni comprati dall’impresa mineraria. Io esigo che Yanacocha rispetti questi confini, i terreni dei nostri fratelli campesinos, e che non invada le nostre proprietà. Ho un certificato di possesso di acquisto-vendita di questa zona. Ma l’impresa, con l’aiuto della stampa venduta, va a dire che tutto questo è suo, per diritto. In realtà, sta usurpando la nostra dignità.

D. Come avete comprato questi terreni?

Tutti questi terreni prima erano appartenuti ad una comunità, e le autorità di questa comunità fecero chiamare i comuneros di Chugurmayo, Cruzpampa e Salacate per fare una divisione e consegnare a ciascuno la sua parte con il relativo documento e il certificato di proprietà. Col tempo, molti comuneros hanno trasferito o hanno venduto i loro terreni perché non volevano più vivere a queste altitudini. Il mio terreno mi è costato tutto il denaro che avevo e l’ho comprato nel 1994. Non sono venuta a invadere la miniera, come dicono i mezzi di comunicazione bugiardi. Yanacocha inizialmente ha detto che aveva comprato le terre dalla comunità, poi ha detto dai confinanti, ma nei documenti che ha presentato alla polizia del distretto di Sorocucho dice che ha comprato i terreni a mio suocero Esteban Chaupe Rodríguez. Io non ho mai ho venduto il mio terreno.

D. Quante volte hanno tentato di farvi sgomberare?

È dal 22 maggio 2011 che hanno tentato di trascinarmi via, di farmi abbandonare le mie cose, di bruciarmi il capanno. Hanno aggredito i miei confinanti, hanno spaventato i miei figli. La mia figlia diciottenne è stata costretta a inginocchiarsi davanti a un macchinario e le hanno detto che le sarebbero passati sopra se avesse insistito. Poi, l’hanno picchiata sulla testa. In agosto hanno portato via il mio legname, i miei viveri, le mie cose, hanno portato tutto nei loro locali, alla miniera. Quindici giorni or sono hanno portato le cose al tribunale di Celendín. E quando sono andata a incontrare il giudice, mi ha detto che non sapeva nulla e che lui non aveva nulla. Poi, coi loro macchinari e i loro Dinoes hanno ammazzato anche il mio cane pastore e hanno rubato due delle mie pecore, lo hanno fatto fra le risate e gli sghignazzi. Io sono una donna povera che vive filando e tessendo, vendo quello che confeziono. Mio marito si dedica alla chacra (l’orto, ndt) per poter mangiare ciò che seminiamo e ora l’impresa chiede che le paghiamo i danni.

D.Fino a quando crede di poter resistere allo sgombero?

Sto presentando i ricorsi alla città di Cajamarca, se non mi danno ragione ricorrerò più in alto. Fino a quando resisterò? Fino a quando la Dinoes non mi ammazzerà. Fino ad allora continuerò a lottare, sì. E Conga no va (questo è lo slogan delle lotte contro la miniera, ndt)

 

 

 

 

La pioggia cresce di intensità e non è più possibile restare in questo posto. La señora Chaupe invita i comuneros a pernottare nella sua casa. Attraversiamo l’orto con un’oscurità che non ci permette di vedere neppure le nostre mani. Degli uccelli passano sopra le nostre teste stridendo, mentre i cani latrano più lontano. La paura può essere un’allerta necessaria. Il suolo fangoso richiede passi precisi e decisi e la luce di un focolare ci indica il cammino verso la casa. Siamo in diversi ma si trova il modo di accomodarci. Il nostro alito è pura nebbia. Siamo sotto lo zero.

I comuneros che sono arrivati fino alla laguna El Perol e che stanno tornando indietro raccontano che una fila di macchinari della miniera ha sgomberato in fretta vedendoli arrivare. Stanno rimuovendo terra a cinquecento metri dalla laguna, assicurano. Abbiamo constatato che l’attività a Conga non è mai stata fermata, concludono. Raccontano anche che i dirigenti hanno presentato una denuncia alla procura per le transenne poste da Yanacocha sulle strade pubbliche. I comuneros sono uomini robusti, con i visi bruciati dal sole e dal freddo. Ormai a loro agio, cominciano con le battute e lo scherzo, la casa offre la coca per il bolo e loro tirano fuori il liquore. Si condividono caramelle mentre i Chaupe preparano una zuppa calda che fa “rivivere i morti”, una mescolanza di riso, pasta e piselli. E anche delle acqueviti fatte con foglie di piante di patata.

Si avvicinano delle luci e alcuni temono che sia la Dinoes che viene come sempre a provocare. Invece no. Sono Marco Arana[1], la sua guardia di sicurezza e il dirigente della PIC (Plataforma Interinstitucional Celendina) Milton Sánchez. Sono inzuppati come tutti. Il focolare diventa un essiccatore improvvisato di giornali, scarpe e pantaloni. Alcuni giornali si scaldano più del dovuto e si mescolano alla cenere. Solo le candele illuminano la notte, non c’è luce elettrica e i cellulari devono essere ricaricati quando, una o due volte per settimana, si scende al villaggio. I comuneros raccontano storie di fantasmi e si sfidano nelle barzellette. La coca e l’alcool li tengono svegli fino alle prime luci del giorno. Ma è alle tre della notte che il freddo diventa insopportabile malgrado i ponchos e le coperte. Il padrone di casa, don Jaime Chaupe, racconta che alcune volte i funzionari della miniera e i poliziotti gli hanno chiesto di fare una proposta per vendere le sue terre a un prezzo considerevole ma lui non ha mai accettato.

Sono le quattro e mezzo della mattina e la prima cosa che fa Máxima Acuña Atalaya, rischiarandosi appena con una lanterna, è pelare le patate e lasciare tutto pronto affinché la nuora prepari durante il giorno il pranzo. In mezzo all’oscurità, una presenza. È Santiago, l’antropologo newyorchese, che arriva fradicio dicendo di aver vissuto un inferno congelato essendosi perso nel cammino. Gli preparano un posto per dormire.

E’ venerdì, le 5,30 del mattino di un giorno di mercato. La Señora Chaupe solleva un pesante zaino e, assieme al suo sposo, monta sul combi che la porterà alla comunità di Santa Rosa per vendere i suoi prodotti. Si accomiata dai comuneros  e dai dirigenti. La luminosità delle mattine a 4.000 metri di altitudine ferisce le retine non abituate. La Dinoes, dalle sue camionette, sorveglia i Guardianes de las lagunas, e dalle auto della miniera si filma tutto a una certa distanza. Agenti di polizia, con giubbotti antiproiettile, vigilano con continuità. Sarà una settimana fredda e movimentata per tutti.

 


Una insurrezione in corso e una nuova parola “Extrahección”

Siamo di fronte ovunque ad una insurrezione in corso, disseminata, dispersa, inestinguibile. «Non si tratta di una rivolta armata. Succede nei piccoli angoli che non possono essere raggiunti dalle mani poderose ma malvagie dello stato. Non è centralizzata né isolata: non può essere distrutta dai potenti, dai ricchi, dalla polizia. Attraversa un milione di luoghi nello stesso tempo, entra nelle famiglie, nelle strade, nei vicinati, nei luoghi di lavoro. Soffocata in un posto, riappare in un altro, fino a essersi diffusa ovunque» (Gustavo Esteva, Antistasis. L’insurrezione in corso)

Oggi uno degli epicentri di questa insurrezione è in Perù, dove la lotta di indigeni e campesinos per salvare le proprie terre, cioè la vita, loro e del pianeta, si fa sempre più estesa. Il 19% del territorio peruviano è ipotecato da concessioni minerarie. Nel territorio di San Juan de Kañaris, nel dipartimento nord di Lambayeque, le concessioni riguardano il 96% del territorio. Un caso clamoroso è quello di Conga, nella zona di Cajamarca, dove una nuova concessione mineraria data alla Newmont Mining Co. minaccia quattro lagune a 3.700 metri s.l.m. che forniscono acqua per l’agricoltura e i pascoli. Da queste lagune proviene l’acqua necessaria a molti villaggi a valle. La miniera d’oro, del costo di 4,8 miliardi di dollari, del tipo a cielo aperto, rischia di provocare l’inquinamento delle acque con arsenico e mercurio, malgrado quanto afferma la compagnia mineraria. In Perù i conflitti in corso per attività minerarie e petrolifere superano il centinaio e riguardano tutto il paese, dai territori amazzonici all’altipiano andino.

Ma la piaga è continentale ed è così grave che, per caratterizzarla, gli esperti hanno coniato un  nuovo nome: extrahección. «Extraheccion è una nuova parola per descrivere l’appropriazione di risorse naturali per imposizione del potere e violando i diritti umani e la Natura. La parola è nuova ma il concetto è molto noto. Descrive situazioni che poco per volta stanno diventando sempre più comuni, come attività minerarie o petrolifere imposte in un contesto di violenza, disattendendo le voci cittadine, trasferendo comunità contadine o indigene o contaminando l’ambiente».

 

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Category: Donne, lavoro, femminismi

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