Silvio Bergia: un dialogo fra le due culture?

| 14 Aprile 2012 | Comments (1)

 

 

 

DIBATTITO SULLE DUE CULTURE

Il 7 maggio del 1959 Charles Snow tenne una conferenza dal titolo The two cultures. In essa Snow sosteneva che la mancanza di comunicazione fra le due culture della società moderna costituiva un pesante intralcio per la soluzione dei problemi del mondo. Ma è su quella mancanza di comunicazione che, in termini nudi e crudi, apriva efficacemente una discussione mai spenta del tutto:

<<Molte volte mi sono trovato presente a riunioni di persone reputate di elevata cultura, secondo i criteri della cultura tradizionale, che si sono precipitate a dichiarare di non poter credere che gli scienziati fossero così privi di cultura letteraria. Un paio di volte mi sono irritato e ho chiesto alla compagnia quanti di loro se la sentivano di spiegare (describe) la seconda legge della termodinamica (il testo originale aggiunge: the law of entropy). La risposta era fredda: ed altresì negativa. Eppure chiedevo qualcosa che è press’a poco l’equivalente scientifico di: “Avete letto un’opera di Shakespeare?” Credo ora che se avessi fatto una domanda ancora più semplice – per esempio, “Che cosa intendete per massa, o per accelerazione?”, e cioè l’equivalente scientifico di “Sapete leggere?” – non più di una su dieci di quelle persone di elevata cultura si sarebbe accorta che stavo parlando lo stesso linguaggio. Così il grande linguaggio (edifice) della fisica moderna diventa sempre più alto e la maggioranza delle persone più intelligenti del mondo occidentale ne capiscono quanto ne avrebbero capito i loro antenati dell’età neolitica.>>[1]

Snow aveva colto, nella sua essenza più immediata, un fenomeno sociale anche se di portata limitata in quanto riguardava le classi medio-alte – ben presente nella società britannica dell’epoca, ma che certamente si presentava in termini analoghi in altre: vi convivevano, per l’appunto, due culture, una cultura che Snow chiama letteraria, e che potremmo chiamare, in termini leggermente più ampi, umanistica, e una cultura scientifica; e la seconda non era sentita come tale dalla prima. Non solo, perché ai “letterati” chiamiamoli così per ora per semplicità della cultura scientifica non importava un bel nulla.

Genericamente parlando, converremmo probabilmente in molti che in qualche misura il problema sussista anche nella società italiana di oggi. Quello che segue è un tentativo di tratteggiarne alcuni aspetti.

Cominciamo dal primo. Snow era di formazione un fisico (prese parte a ricerche presso il Cavendish Lab. sotto la guida di Ernest Rutherford, e fu direttore della rivista Discovery della Cambridge University Press), e non a caso gli esempi fatti riguardavano strettamente la fisica. La sordità degli appartenenti alla prima cultura – ammesso che sussista nei termini usati da Snow – si estende alle altre discipline scientifiche? Sgombero subito il campo da possibili malintesi: da qui in avanti mi riferirò soltanto, come tali, alle scienze della natura, accantonando quindi del tutto altre scienze, la matematica da un lato e le scienze economico-sociali dall’altro.

Parlando per l’appunto di scienze della natura, si sfonda una porta aperta se si afferma che oggi c’è un interesse vivissimo per i risvolti etici di quanto scienze biologiche e medicina, dalla fecondazione assistita all’accanimento terapeutico,  mettono sul tappeto. E questo interesse fa sì che, per queste discipline, anche i non addetti ai lavori cerchino di impadronirsi – e in molti casi riescano a farlo – del quadro scientifico che li sottende. La sordità degli esponenti della cultura, che continuo a chiamare umanistica non trovando un termine più soddisfacente, nei confronti della cultura scientifica è in massima parte circoscritta, fra le scienze della natura, a quelle per così dire più dure, diciamo, per intenderci, la chimica e la fisica.

Ed è in larga misura al dialogo – se pure esiste – fra cultori delle scienze fisiche in senso lato, includendo fra esse quindi anche astrofisica e cosmologia, ed esponenti dell’altra cultura che farò di qui in avanti riferimento.

Come preannunciato, il palcoscenico cui guarderò è quello dell’Italia di oggi. Una prima domanda che probabilmente vien fatto allora di porsi è se vi abbia ancora un peso rilevante l’ipoteca posta sulla questione dall’ondata di idealismo, in particolare crociano, che dettò legge nel Paese per un notevole lasso di tempo. È possibile che una percentuale non irrilevante degli esponenti dell’altra cultura sia ancora permeata del messaggio crociano che le scienze della natura non vadano al di là di accertamenti tecnici, in grado certamente di dar luogo ad applicazioni, ma che con la cultura hanno ben poco a che fare? Difficile dirlo, anche e soprattutto perché, se pure ce ne sono, non succede spesso di sentire da loro espliciti riferimenti in proposito. Quello che mi sembra di poter dire è che quel messaggio possa aver lasciato consistenti sedimenti, che potrebbero contribuire a rendere il distacco fra le due culture più rilevante da noi che in altri Paesi europei.

Quello che certamente è vero – e il fenomeno non è certo limitato al nostro Paese – è che la sordità nei confronti di quanto abbia a che fare con la fisica è indubbiamente dovuta in parte al fatto che è quanto mai arduo esporre un qualsiasi argomento di fisica senza far ricorso alla matematica. Che il grosso di coloro che hanno conseguito un diploma di scuola secondaria superiore dimentica nel giro di un paio d’anni. Ma non si tratta solo di questo: è che, in misura alquanto maggiore che per le discipline appena menzionate, è difficile impadronirsi di un concetto base senza una forte applicazione mentale.

Permettetemi una digressione. Sarà per quanto appena detto (ci sono e su questo ritornerò una volta ripreso il filo del discorso altre ragioni), ma è un dato di fatto che chi non opera nel campo non sa che la fisica e, accanto ad essa, l’astrofisica e la cosmologia, hanno fatto, nel corso del Novecento, passi da gigante. Per non sprecarci che due parole, l’indagine sul mondo microscopico è pervenuta a una conoscenza dettagliata dei componenti elementari della materia e delle leggi che determinano le loro interazioni, quella – chiamiamola così – sul mondo dei cieli a una visione complessiva dell’universo, dei suoi moti e delle sue origini. Per non parlare degli sviluppi di teorie quadro, utilizzate per l’analisi del quadro generale, quali le meccanica quantistica e la relatività, ristretta e generale. Di tutto questo agli esponenti dell’altra cultura non è appunto pervenuto nulla. A parte il vago ricordo che la fisica nucleare ha portato alla bomba e che che c’è stato un personaggio strano, Einstein, che si è cavato dal cappello una quantità di cose cervellotiche che nessuno capisce (che però – che combinazione! – hanno ricevuto un’infinita di coorroborazioni sperimentali).

Ma ritorniamo al tema centrale. Un dialogo, di norma, comporta una trasmissione di informazioni e di idee nei due sensi. Qui saremo  interessati alla comunicazione solo nel senso che va dall’ambiente scientifico a quello umanistico, il soggetto che ha interessato Snow e che qui riprendiamo, anche se non è evidentemente privo di interesse il tema della ricezione di aspetti della cultura umanistica da parte di esponenti di quella scientifica. E, a partire da Snow, e fin qui in questo tentativo di aggiornamento, si è sottolineata la sordità – cosi l’abbiamo esplicitamente chiamata – degli esponenti della prima.

Ma – sembra il caso di chiedersi – questa sordità non sarà per caso dovuta anche al mutismo di chi, come appartenente alla seconda cultura, dovrebbe cercare di interessare gli esponenti dell’altra?

“Si lamenta la circostanza che la scienza non sia riconosciuta come cultura, e si citano i guasti dell’idealismo. Ma io mi chiedo a chi spetta comunicare i contenuti della scienza a tutte le persone di buona volontà e di lucidità intellettuale, rinunciando a un po’ di formalismo ma non a idee e concetti fondamentali? Non dovrebbero essere gli scienziati stessi? Questo vale anche per gli storici della scienza, in particolare gli storici della fisica. Non dovrebbero mettere le mani nei gangli vitali della fisica, illuminarli, analizzarli, confrontarli, discuterli? Se questo lavoro di fine archeologia non lo fanno i fisici e gli storici della fisica, chi dovrebbe farlo per loro? I filosofi? Gli storici generalisti? Occorre fare quello che hanno fatto Mach, Boltzmann, Poincaré, … e altri dopo di loro …”[2]

Il 21 maggio del 2009, nei Laboratori Nazionali dell’INFN, a Frascati, si tenne un seminario con tema “La fisica nella società italiana”. Per l’occasione furono chiamati a presentare loro libri alcuni fisici. Ma si volle che partecipassero attivamente, per citare  l’espressione usata nella presentazione dell’evento in un giornale locale da parte di Giuseppina Modestino, ricercatrice dell’INFN attiva in quei Laboratori, anche “diverse figure d’intellettuali, ognuno con il proprio sentire e le proprie competenze”. Di fatto si trattava di un sociologo, di uno storico e di un giornalista. Nessuno dei quali era di fatto chiamato, quale persona acculturata ma non strettamente addetta ai lavori, a recepire un messaggio da parte dei fisici presenti. Per di più, il pubblico era formato, a parte colleghi del Laboratorio, da classi di studenti liceali, accompagnati da loro insegnanti. Penso che sarebbe stato più opportuno diffondere l’informazione sull’evento a nuclei di esponenti dell’altra cultura. A chi, sennò, era rivolto il messaggio? Credo, tutto sommato, che si sia trattato di un’occasione sprecata. La questione di fondo è appunto lanciare un messaggio convincente a esponenti dell’altra cultura.

A parte le modalità da seguirsi per coinvolgere i destinatari del messaggio, c’è il problema basilare della scelta del linguaggio opportuno. “Come” comunicare i risultati della scienza? È il problema della divulgazione scientifica. Un pacchetto di anni fa, Carlo Bernardini, che contribuì a suo tempo fattivamente alla ricostruzione della fisica italiana nel dopoguerra, e che si è occupato del problema, prendeva bonariamente in giro chi voleva fare della divulgazione provando a tradurre nozioni fisico-matematiche nel linguaggio di tutti i giorni in un articolo dal titolo “L’algebra delle caramelle”. Ricordando due definizioni da lui date in uno scritto recente[3]:

“Linguaggio di elaborazione della scienza: formale e simbolico (trasmissibile se lo si conosce), serve per elaborare informazioni secondo procedure logico-matematiche per conseguire risultati non contenuti già nelle informazioni di partenza”

“Linguaggio di comunicazione (proprio della cultura umanistica): proposizionale, con regole di senso e un vocabolario condiviso, serve per la registrazione di fatti, idee e opinioni nell’impiego soggettivo e per lo scambio di queste informazioni nell’impiego intersoggettivo”

Antonello Pasini, mio ex studente ed affermato climatologo, affermava[4]:

“Il problema della divulgazione sta tutto nel tradurre il linguaggio di elaborazione della scienza in linguaggio di comunicazione.”

“Ma per comprendere realmente e per non accettare passivamente quanto trasmesso, bisogna dire chiaramente che si devono dare anche gli strumenti di base dell’altro linguaggio.”

Ebbene, non è che, da parte degli addetti ai lavori, voglio dire, per chiarezza, di fisici, siano mancati, o manchino, in Italia tentativi rispondenti a questi requisiti. Si tratta di biografie, di analisi storiche di specifici capitoli della fisica, di esposizioni che cercano di rendere accessibili gli elementi concettualmente più rilevanti di alcuni di questi capitoli senza far uso della matematica più ostica, di tentativi di parlare solo dei contenuti strettamente concettuali in modo da catturare immediatamente l’interesse di persone dalle formazioni più svariate, e cosi via. Rimando alla Bibliografia per una breve lista, esposta secondo l’ordine delle tipologie appena tratteggiate, limitata a quanto ho letto e di cui mi ricordo al momento, consapevole del fatto che l’elenco non è certamente esauriente, e scusandomi con i tanti non menzionati.

Verra fatto di dire, a questo punto: dunque il problema è stato affrontato in termini concreti e accettabili, e la comunicazione all’ambiente umanistico di contenuti rilevanti da parte dell’ambiente scientifico deve aver gia riscosso notevoli successi.

Ci sono varie ragioni per dubitarne. La prima, e basilare: credo sia un dato di fatto che di opere come quelle menzionate non se ne pubblichino obiettivamente molte e che, di ciascuna, si pubblichi un numero molto limitato di copie. Un primo motivo, del tutto ovvio, è che le torme di persone, certamente genericamente di cultura, che invadono le librerie sono verosimilmente in prevalenza interessate a letture che intrattengano piuttosto che a letture formative. Cosa che probabilmente vale indipendentemente dalla loro appartenenza all’una o all’altra delle due culture. E gli editori ne siano ovviamente al corrente. Ma, azzardo, c’è un certo numero di altri fattori che incide ulteriormente sulla cosa; ho usato questo verbo perché non sono in possesso di dati puntuali in proposito, e sarò lieto di prendere nota di eventuali smentite e/o precisazioni. Il primo (e questo, mi pare di poter dire, è un dato di fatto): gli editori non fanno praticamente nessuna forma di pubblicità a opere del genere. Perché? Perché varrebbe a far sì che, invece di vendere cento copie – faccio per dire – se ne vendano 120. E capirai che affare: non varrebbe – vorrei ben vedere – neppure a rientrare delle spese per la pubblicità.

Allego un piccolo documento – un messaggio personalmente ricevuto dall’editore anni fa – che appare in qualche misura in carattere con quanto appena detto:

 

Da BOLLATI BORINGHIERI EDITORE    30/11/1988

S. Bergia, Dal cosmo immutabile all’universo in evoluzione

Venduto annuo: 6                                                         Diritti maturati: 9,38

E che aggiunge qualcosa, quei 9,38 euro, circa quanto il lavoro in questo campo sia in carattere con l’Italia di oggi,

Per completare il quadro trascrivo anche un messaggio più recente, che non contiene qualcosa di pertinente con quanto provavo a dire, ma aggiunge una nota allegra:

Da BOLLATI BORINGHIERI EDITORE    22-07-2010

Macero parziale di 100 copie del Titolo

S. Bergia, Dal cosmo immutabile all’universo in evoluzione

Nell’ambito della revisione periodica  del nostro magazzino, abbiamo rilevato una giacenza eccessiva del titolo in oggetto.

Vi  informiamo pertanto della nostra decisione di eliminare una parte della giacenza. Riteniamo che tale riduzione non comprometta la disponibilità commerciale e anzi ci consenta di eliminare le copie guastate dalla movimentazione.

 

Ma riprendiamo il filo del discorso. Se è vero che le persone che invadono le librerie sono verosimilmente in prevalenza interessate a letture che intrattengano piuttosto che a letture formative, la situazione è esattamente la stessa per opere formative dell’una e dell’altra cultura? Credo proprio di no. Per almeno tre buoni motivi. Il primo: la cultura umanistica ha più cultori di quella scientifica (per lo meno nel senso strettto delle scienze della natura più dure); il secondo: è più facile, credo, che “uno scienziato” legga un libro di un esponente dell’altra cultura che non il viceversa; il terzo: le redazioni, ho l’impressione, sono più affollate da umanisti che da scienziati. I primi due motivi fanno sì che, obiettivamente, valga più la pena di far pubblicità al parto di un membro della cultura umanistica piuttosto che a uno della scientifica (sempre nel senso precisato sopra). Il terzo che ci sia più motivazione e più spinta per una pubblicizzazione del prodotto.

Ma siamo convinti che il perseguimento continuativo, se mai ci potesse essere, da parte degli editori di forme di pubblicità per il tipo di opere di cui sto parlando cambierebbe drasticamente in posivivo la situazione? Io credo proprio di no. Manca qualcosa di potenzialmente molto più efficace a monte. Sono i mezzi di comunicazione di massa che potrebbero fare la differenza. Ma la stampa nazionale e la televisione, di norma, salvo qualche benemerita eccezione, non seguono organicamente gli sviluppi dei vari campi di ricerca, limitandosi a fornire informazioni frammentarie quando le comunicazioni ricevute sembrano poter fare in qualche modo notizia. Il grande pubblico non è quindi posto nella condizione di farsi un’idea organica di quanto è successo e sta succedendo e – neppure a grandi linee – del quadro complessivo delle conoscenze conseguite nei vari settori[5].  Il caso più sfortunato di tutti, come accennavo qualche pagina sopra, è quello dell’ignoranza universale su quanto conseguitio dalle scienze fisiche nel corso del Novecento.

Se le cose non stessero così, sono convinto che si desterebbe l’interesse di molti non esperti per il quadro complessivo e gli sviluppi recenti di campi di studio come la fisica del mondo ultramicroscopico o l’astrofisica. E verrebbe forse naturale, alle redazioni responsabili, sollecitare qualche nome noto a introdurre e commentare opere di divulgazione, nel senso qualificato tratteggiato sopra, sui temi adombrati. Cosa che, credo, ne promuoverebbe la diffusione in misura molto maggiore di quanto non possano fare i sobri e circoscritti annunci propalati dagli editori.

Che cosa c’è dietro questa mancanza di attenzione da parte della stampa nei confronti delle scienze dure? Non mi pongo la stessa domanda per quanto riguarda la televisione (le televisioni), immaginando che chiunque non abbia abdicato al proposito di farsi un’immagine del mondo in cui viviamo nutrirebbe una bella scorta di risposte. Mi vien fatto di pensare che, in misura forse maggiore di quanto non accada per le redazioni delle case editrici – e, tutto sommato, posto che la stampa, soprattutto quella quotidiana, deve prima di tutto, cronaca a parte, occuparsi di politica, se ne capisce la ragione – in quelle dei giornali sia molto scarsa le presenza di cultori delle materie scientifiche. E non vedo in alcun modo delinearsi un’inversione di tendenza.

Mi avvio a concludere. Cogliendo lo spunto, per porre l’accento su un nodo centrale fino a qui neppure sfiorato, da un passo contenuto in una replica di Umberto Galimberti[6] alla lettera di un lettore:

“Non mi hanno mai appassionato i contrasti fra scienza e fede perché, contrariamente a quanto si è soliti pensare, né l’una né l’altra hanno davvero a che fare con la “verità”. La scienza lo sa da tempo, e su questo non si è mai ingannata, per cui è sempre disposta a invalidare le sue ipotesi ogni volta che ne trova di migliori […]. La scienza non ha rapporti con la verità, perché ciò che essa produce sono solo proposizioni “esatte”, cioè ottenute da (ex actu) premesse che sono state ipotizzate in via ipotetica. Che poi l’ipotesi sia confermata dall’esperimento dice solo che noi conosciamo la validità operativa di quell’ipotesi, non la natura della cosa indagata con quell’ipotesi, perché, interrogata, la cosa non mostra il suo volto, ma semplicemente risponde all’ipotesi anticipata.”

“La scienza sempre disposta a invalidare le sue ipotesi ogni volta che ne trova di migliori.” Un paio di osservazioni. Per cominciare: un’ipotesi migliore (spesso, più che di un’ipotesi, si tratta di quello che usiamo chiamare teoria) è tale se corroborata da dati sperimentali. Per dire: non è proprio che la fisica vada avanti sostituendo ipotesi con ipotesi (teorie con teorie). Mi pare più puntuale parlare di sostituzione di quadri interpretativi con quadri interpretativi. Se di sostituzione si tratta. Sì, perché non è proprio che si butti via quanto costituiva il quadro precedente: di norma, una nuova teoria estende la precedente; che ne diventa un caso limite. Vogliamo ricordare la meccanica relativistica? Essa non ci ha fatto buttar via quella newtoniana; che continua a valere, con grandissima approssimazione, quando le velocità in gioco sono molto piccole rispetto a quella della velocità della luce nel vuoto. O ricordare che la stessa nozione di massa newtoniana è stata a tal punto sussunta nella meccanica relativistica che determina il valore della norma quadrata del quadrivettore energia-impulso di un corpo.

Ma Galimberti va oltre. Perché ci dice che la non ha rapporti con la verità, perché “la cosa indagata non mostra il suo volto ma si limita a rispondere all’ipotesi anticipata”. Mi vien fatto di pensare al proposito, per cominciare, a Eratostene (~276 – ~194 a.C.). Che, come molti intellettuali (e non solo) suoi conterranei, pensava che la Terra fosse sferica. Allora doveva avere un raggio di valore definito. E lui trovò il modo di misurarlo. Possiamo dire che, in questo caso, la cosa indagata era la Terra? E dovremmo allora affermare che essa non mostrò il suo volto ma si limitò a rispondere all’ipotesi anticipata? L’ipotesi che fosse sferica? Ma diamine – a parte dettagli geodesici – lo è!

Andiamo avanti. E, per ancorarci a un terreno che, penso, Galimberti considererebbe piouttosto solido, rifacciamoci a Kant. Il quale, nel 1755, scriveva:

“È molto più naturale considerarle [le nebulose] non come singole, enormi, stelle, ma come sistemi di molte stelle, che la distanza ci presenta concentrate in uno spazio tanto piccolo che la luce, che da ciascuna di esse è impercettibile, ci raggiunge, a causa della loro immensa moltitudine, come un pallido e uniforme lucore. La loro analogia col sistema stellare nel quale noi stessi ci troviamo, la loro forma, che è proprio quella che dovrebbe essere secondo la nostra teoria, la debolezza della loro luce che domanda una distanza infinita, tutto questo è in perfetta armonia con l’opinione che queste deboli figure di forma ellittica siano proprio universi, o per così dire Vie Lattee, come quella la cui struttura abbiamo appena svelato”.

La “teoria” (ipotesi) kantiana sarebbe stata suo tempo corroborata. Non so, mi sembra di poter dire che il soggetto “le nebulose” sostituisca qui il soggetto “la Terra” di Eratostene. L’ipotesi anticipata era che, come la nostra Via Lattea, fossero quello che oggi chiamiamo galassie. E – diamine! – lo sono. Ho in mente una buona messe di esempi consimili, ma mi fermerò qui.

E vengo al punto. Mi chiedo da che parte – se da quella comportata dalle affermazioni di Galimberti o da quella da me adombrata –  si schiererebbe il grosso degli esponenti dello schieramento con cui vorremmo dialogare. Perché, dovesse risultare che sottoscriverebbe in partenza le affermazioni di Galimberti, tanto varrebbe lasciar perdere.

Bibliografia

 

Fabio Toscano, Il genio e il gentiluomo – Einstein e il matematico italiano che salvò la teoria della relatività generale, Sironi Editore, Milano, 2004.

Carlo Bernardini, Fisica vissuta. Codice, Torino, 2006.

Anna Maria Lombardi, Keplero, Edizioni Codice, Torino, 2008.

Ettore e Quirino Majorana tra fisica teorica e sperimentale, a cura di Giorgio Dragoni, Consiglio Nazionale delle Ricerche, Società Italiana  di Fisica, Tipografia Monograph, Bologna, 2008.

Maestri e allievi nella fisica italiana del Novecento, a cura di Luisa Bonolis, Percorsi della Fisica, La Goliardica Pavese, Pavia, 2008.

Alessandro Braccesi, Al di là dell’intuizione. Per una storia della Fisica del ventesimo secolo – Relatività e quantistica, Bononia University Press, 2008.

La fisica nucleare e subnucleare in Italia – Lo sviluppo spontaneo di una scuola scientifica di frontiera, a cura di Carlo Bernardini, Quaderni del Giornale di Storia Contemporanea, Luigi Pellegrini Editore, Cosenza, 2009.

Giancarlo Ghirardi, Un’occhiata alle carte di Dio. Gli interrogativi che la scienza moderna pone all’uomo, il Saggiatore, Milano, 1997.

Luigi Foschini, Singolarità spaziotemporali – Al di là e al di qua dell’orizzonte degli eventi, Aracne, Roma, 2007.

 


[1] Charles Percy Snow, Le due culture, Feltrinelli, 1964; Marsilio, 2005.

[2] Stefano Bordoni, comunicazione personale (e-mail). Di Bordoni, si veda, fra l’altro, Eleveremo questa congettura … Percorso storico verso la teoria della relatività ristretta, La Goliardica Pavese, 1995.

[3] Carlo Bernardini, Prima Lezione di Fisica, Laterza, 2007.

[4] Antonello Pasini, Complessità a scuola? Bozza di un percorso sul clima e i modelli climatici, Corso di aggiornamento (AIF) “Fisica e …”, Bologna, 16 aprile 2010.

[5] “Uno scienziato, o più in generale una persona acculturata di scienza, che legga i giornali, ascolti la radio o guardi la televisione, anzituttoci troverà solo molto raramente notizie scientifiche, e praticamente mai in posizione di rilievo come la prima pagina. Ma quelle rare volte che ce le troverà, si accorgerà che in genere sono solo insignificanti polli notati da ignari selvaggi. I quali, nella migliore delle ipotesi, avranno anche sfogliato le pagine di Nature o di Science, ma senza percepire altro che ciò che potevano riconoscere e comprendere.” Piergiorgio Odifreddi, Elogio della scienza – Quel che i media non riescono a dire (La Repubblica, lunedì 22 marzo 2010).

[6] Repubblica, 6 febbraio 2010

Category: Dibattiti, Storia della scienza e filosofia

About Silvio Bergia: Silvio Bergia ha tenuto corsi di Metodi Matematici della Fisica, Relatività e Filosofia della Fisica per il corso di laurea in Fisica dell'Università di Bologna, presso il cui Dipartimento di Fisica ha svolto gran parte della sua attività di studio e ricerca in fisica. In particolare si è occupato delle particelle elementari, fondamenti della meccanica quantistica e della relatività generale, cosmologia e storia della fisica, attività che continua a svolgere, pur essendo in pensione dal novembre del 2007, soprattutto seguendo laureandi e dottorandi. È autore dei libri: Dal cosmo immutabile all'universo in evoluzione (Bollati Boringhieri, 1995), Dialogo sul sistema dell'Universo (McGraw Hill, 2002), Fisica Moderna. Relatività e Fisica delle Particelle (Carocci, 2009).

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  1. claudio borghi ha detto:

    Galimberti sostiene che “la scienza non ha rapporti con la verità, perché ciò che essa produce sono solo proposizioni “esatte”, cioè ottenute da (ex actu) premesse che sono state ipotizzate in via ipotetica”. Cosa intenda con verità non è nel contesto ben chiaro: si direbbe un’allusione al noumeno di Kant, l’essenza della “cosa che non mostra il suo volto” e in quanto tale è inconoscibile. Quando i filosofi la mettono su questo piano, il confronto diventa problematico e la discussione si arena. Non si può non concordare sull’incontestabilità dell’evidenza fenomenica (sfericità della Terra, nebulosa come aggregato di stelle, ecc.), ma credo che il problema implicito sollevato da Galimberti sia nell’interpretazione complessiva che di più dati sperimentali forniscono le teorie che, in tempi recenti, stanno sempre più addentrandosi in ipotesi sull’evoluzione dei sistemi indagati (tra cui l’intero universo) che hanno spesso il sapore dell’azzardo metafisico, in quanto saltano molto oltre il quadro ipotetico che le conoscenze acquisite consentono di descrivere. La messe degli esempi potrebbe essere anche in questo caso piuttosto folta. Il quadro della fisica teorica più recente è un mosaico di tentativi di “capire qualcosa” a partire da modelli che hanno il sapore, sempre più, della idealizzazione matematica e dell’astrazione intellettualmente inafferrabile. Immaginiamo che il mondo sia come lo descrive la teoria, costruiamo un modello matematico e ne deduciamo le conseguenze, dopo aver innescato il motore delle formule. La fisica teorica, quando si applica a un modello congetturale e non a dati osservativi di immediata evidenza sperimentale, somiglia molto un’indagine speculativa-filosofica del mondo fenomenico. L’evoluzione della fisica, per usare un titolo einsteiniano, negli ultimi cento-centocinquant’anni, è stata caratterizzata da due tipi di ricerca: una finalizzata alla implementazione tecnologica delle teorie (che ci danno l’illusione di dominare la materia consentendoci di costruire macchine), l’altra finalizzata alla descrizione sintetica della complessità del reale, in cui la dinamica del progresso conoscitivo è legata alla comprensione delle relazioni concettuali tra ambiti fenomenici diversi. Sono sempre più convinto che, per quanto ci possano essere interazioni tra le due aree di ricerca, si tratti di due modi di fare scienza radicalmente diversi, anche se li consideriamo ramificazioni dello stesso tronco, nate da un’unica radice intellettuale. In effetti, mentre la prima produce una moltiplicazione di idee e forme, la seconda tende all’unificazione del molteplice (teorie di grande unificazione, stringhe, ecc) in quadri teorici dal sapore decisamente idealistico-metafisico. Questo non significa che tra le due aree di ricerca non ci possa essere o essere stato uno scambio anche fecondo: la teoria di Maxwell ha avuto sviluppi tecnologici significativi, lo stesso si può dire della relatività einsteiniana e della meccanica quantistica. La presente nota è centrata sull’interpretazione delle teorie scientifiche che lavorano sui sistemi complessi. La facilità con cui, anche nelle teorie fisiche, si sposta il discorso all’intero universo, rischia di portare l’indagine teorica in un ambito speculativo di “ricerca della verità” che, per quanto possa apparire emozionante, pare spesso galleggiare sospesa in una regione di vuota suggestione metafisica. Intorno agli effettivi problemi interpretativi, legati alle teorie che in fisica fioriscono in continuazione, potrebbe essere interessante un confronto con persone intelligenti come Galimberti. Purché, lui come tanti altri suoi colleghi, non si limiti a far notare quanto sia enorme la regione speculativa indagata dai filosofi in confronto a quella indagata dai fisici e accetti il confronto sul terreno vivo delle ipotesi in continua evoluzione, in relazione ai dati osservativi e sperimentali che gli occhi degli strumenti ci mettono a disposizione, ben oltre la limitata capacità di esplorazione dei nostri sensi.
    Claudio Borghi

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