Giovanni Giuseppe Nicosia: Una piccola storia di contatti tra Mediterraneo e Cina

 


 

I. Mercanti, soldati e diplomatici sulla Via della seta

1 Greci in Siria

Secondo la tradizione fu il condottiero Nearco (Νέαρχος 360 – 300 p.E.v.), lealissimo ufficiale di Alessandro Magno (Μέγας Ἀλέξανδρος 356 – 323 p.E.v.), a scoprire la seta in uno dei suoi viaggi diplomatici e scientifici in India ed a farla conoscere nel mondo ellenistico, in particolare in Siria ( Swryʾ). Certamente la Siria divenne uno dei principali terminali di arrivo di quella rete di percorsi lunghi circa 8.000 chilometri detto Via della seta che circa dal II secolo p.E.v. portava merci pregiate dalla Cina verso il Mediterraneo attraverso asprissimi deserti, pianure gelide o roventi, arditissimi passi di montagna, città maestose, enormi fiumi o bracci di mare. Se Roma era una delle destinazioni finali, la Siria fu per secoli uno snodo fondamentale per i diversi traffici di merci e di idee che viaggiavano nei due sensi, sino alla “Città della pace eterna”: Cháng’ān (长安), oggi Xī’ān (西安), che nei suoi più di 3.000 anni di storia è stata la capitale di dodici dinastie. Da quella città partirono molte spedizioni.

2 Cinesi in Asia Centrale

Altre spedizioni dirette al deserto del Gobi furono promosse nel X secolo p.E.v. dalla dinastia Zhōu (). Nel 138 p.E.v. Zhāng Qiān (張騫) partì in cerca di alleanze militari per contrastare alcune popolazioni nomadi che minacciavano la Cina da occidente. Passò per regioni oggi suddivise tra i tanti Paesi dell’Asia Centrale, l’Afghanistan e il Pakistan, dove allora si sviluppavano diversi regni in alcuni dei quali si parlava greco, per ripiegare poi verso l’area indiana. Non trovò alleati ma tornò con accordi commerciali e con idee chiarissime sulle grandi possibilità di traffici possibili a patto di mantenere sicure le vie ed i passi. La Via della Seta era aperta e poteva connettersi ai reticoli stradali tracciati molto tempo prima dai Persiani ed alle rotte marittime battute da Greci e Fenici. A mantenere la sicurezza dei trasporti pensò poi il generale Bān Chāo (班超 32–102 E.v.) con un esercito di 70.000 uomini che ricacciò i nomadi Xiōngnú (匈奴, forse gli Unni) nelle steppe ad occidente ed i Parti alle rive del Mar Caspio, concludendo una guerra durata quasi 150 anni. Il generale nel 97 E.v. tentò anche di inviare a Roma un suo messo come ambasciatore, tale Gān Yīng (甘英) che però si fermò presso i Parti, i quali lo sconsigliarono di proseguire il viaggio per via dei mari poco tranquilli.

3 Romani in Cina

Nel 64 p.E.v. i Romani avevano conquistato la Siria, convinti di aver trovato la fonte di quella strana stoffa così raffinata che credevano di origine vegetale. La scoperta che la seta veniva da molto più lontano spinse poi Maës Titianus, forse un avventuroso imprenditore macedone, a spedizioni sino alla Torre di pietra dello Xīnjiāng (新疆), la regione più occidentale della Cina dove ancora oggi vive un misto di popolazioni derivato da una storia millenaria di contatti e flussi.

Nel 166 E.v. un’ambasceria romana giunse in Cina forse per via di mare ma si trattò probabilmente di un’iniziativa privata con cui un mercante, millantando un incarico diplomatico inesistente, avrebbe cercato di avere spazi ed onori. Insieme a doni di valore indegno degli imperatori romani, portava oggetti d’avorio ed un rinoceronte (particolari sospetti dato che non erano cose facilmente reperibili a Roma). Ma il dono più interessante per i cinesi fu forse un trattato di astronomia di cui non si sa però quasi nulla. Dell’astronomia di origine greca i Cinesi saranno voraci studiosi circa millecinquecento anni più tardi. Pochi altri contatti tra i Romani ed i Cinesi consistettero nell’invio di qualche dono. Certo ognuno di questi due imperi ebbe una qualche percezione dell’esistenza dell’altro, ma probabilmente non chiara cognizione delle dimensioni, della potenza e delle caratteristiche.


II. Religioni e popolazioni sotto i Táng

4 Cristiani Nestoriani in Cina

Oltre al commercio ed alle necessità della diplomazia un’altra forza mosse viaggiatori, comunità ed idee: la religione. I pellegrini cinesi erano soprattutto buddisti che si recavano in India alla ricerca di testi e reliquie. Per quel che riguarda il Mediterraneo invece riecco che l’iniziativa torna agli ambienti colti della Siria, da dove partì un movimento di evangelizzazione cristiano che, dopo un grande successo in Persia ed Asia Centrale, giunse in Cina durante la dinastia Táng (618–907). La Chiesa Cristiana Nestoriana o Chiesa Siriaca Orientale (ܕܡܕܢܚܐ ܥܕܬܐ ʿĒ(d)tāʾ d-Maḏn(ə)ḥāʾ) era nata quando i seguaci di Nestorio (381 – 451), un Patriarca siriano di Costantinopoli, avevano rifiutato certe novità introdotte dal Concilio di Efeso (431) e si erano convinti che in Cristo vi fossero non due nature ma due persone distinte e che Maria potesse essere definita non “madre di Dio” ma “madre di Cristo”. Dalle rive orientali del Mediterraneo i Nestoriani condussero campagne di conversione di grandissimo successo in molti Paesi asiatici, tanto che la loro chiesa fu a lungo, tra quelle cristiana, quella dalla maggior estensione territoriale.

Il missionario nestoriano di origine persiana Āluóběn (阿罗本) giunse nel 635 a Cháng’ān (长安), allora capitale della Cina, dove fu bene accolto dagli imperatori. Sorsero chiese e venne eretta persino un’alta stele di pietra nera scritta in cinese e siriaco nel 781. Nel suo testo si cita anche un Patriarca, cioè un capo di tutta la chiesa, di origini cinesi.

Dopo circa 200 anni di tolleranza i Táng cominciarono ad essere insofferenti verso le religioni di origine straniera e le misero al bando. La stele fu sepolta e le chiese distrutte. Il Buddismo, lo Zoroastrismo ed il Cristianesimo Nestoriano si ridussero drasticamente in Cina, ma quest’ultimo si era ben radicato tra gli Uiguri (維吾爾 Wéiwú’ěr, che oggi sono in maggioranza mussulmani) a nord-ovest del Paese e tra le popolazioni mongole a nord, in particolare gli Öngüt. I Cristiani furono riammessi ufficialmente solo dopo l’invasione mongola, nel XIII secolo. Marco Polo (1254 – 1324) vide alcune fiorenti comunità nestoriane in Cina e Mongolia oltre che nei tanti Paesi per cui passò nel suo viaggio e le descrisse nel Milione.

Il recupero della stele avvenne in circostanze fortuite nel 1624 durante il regno dei Míng (1368 – 1644), che avevano un certo gusto per le cose antiche. Questi la risistemarono in un tempio buddista e la fecero studiare da alcuni esperti, tra cui anche il gesuita portoghese Alvaro Semedo (曾德照 Céngdézhào 1585 – 1658) ed il cristiano Lǐ Zhīzǎo (李之藻 1565 – 1630), un funzionario cinese battezzato da Matteo Ricci (1552 – 1610) col nome di Leone (liáng). Questi pubblicò ufficialmente il testo cinese della stele, che poi fu tradotto dal gesuita fiammingo Nicolas Trigault (金尼閣 Jīn Nígé 1577–1628) in latino e fu diffuso anche in Europa. Oggi, dopo secoli di trasformazioni e complesse vicende, il Cristianesimo Nestoriano conta pochissimi adepti in Cina e non molti anche nel resto del mondo.

5 Ebrei in Cina

Oltre ai Cristiani Nestoriani probabilmente sempre sotto i Táng fecero ingresso in Cina anche comunità di Ebrei che si stabilirono presso Kāifēng (开封), nella parte orientale del Paese. Detti Ebrei di Kāifēng (开封犹太人 Kāifēng yóutàirén) o Comunità orientale (יהדות מזרח Yahadut Mizrah) giunsero probabilmente al seguito della seta per darsi al commercio e si integrarono moltissimo nella società cinese pur mantenendo usi religiosi ed alimentari ebraici. Dal X secolo ebbero sinagoghe, centri culturali, luoghi di commercio e collezioni di libri in lingua ebraica, per lo più comprandone dai viaggiatori. Nel corso dei secoli vennero erette tre steli commemorative dei principali avvenimenti della comunità.

Il Ricci conobbe nel XVII secolo alcuni di questi Ebrei che partecipavano agli esami per le cariche civili e colse l’occasione per corrispondere con i personaggi più eminenti della comunità. Nel corso del tempo, poi, come aveva predetto Ricci, molti si convertirono all’Islàm.

Altri, intanto, erano scesi ad Hángzhōu (杭州), splendida città portuale dello Zhèjiāng (浙江), fondando un’altra comunità che però non lasciò segni così significativi come quella d’origine. Oggi a Kāifēng sopravvive una piccolissima comunità che discende da quella storica, con qualche particolarità rispetto all’Ebraismo rabbinico classico. Lo Stato, anche alla luce della nuova politica di rapporti internazionali con Israele, cerca di tutelarla con opportune istituzioni.

6 Mussulmani in Cina

Sempre nei primi decenni del VII secolo E.v. fece ingresso in Cina anche l’Islàm (detto Huíjiào 回教), grazie a diverse spedizioni missionarie e diplomatiche provenienti dai Paesi del Golfo Persico. Secondo la tradizione Saʿd ibn. Abī Waqqāṣ (ﺳﻌﺪ ﺑﻦ ﺍﺑﻲ ﻭﻗﺎﺹ‎ 595 – 664), uno dei più importanti compagni del Profeta e figura leggendaria fece alcuni viaggi in Cina durante la prima metà del secolo insieme ad altre delle principali figure dell’Islam degli inizi, tra altri lunghissimi viaggi in Africa ed in Asia. Copie del Corano cominciarono a circolare in Cina dopo che un’ambasceria ufficiale inviata dal potente califfo Uthmān ibn ʻAffān (عثمان بن عفانʿ 574 – 656) fu ricevuta molto amichevolmente dall’imperatore Gāozōng (高宗 628 – 683). In quella occasione fu chiaro ad entrambi i sovrani qual’era l’importanza e la consistenza del potere dei rispettivi omologhi, cosa decisamente rara nel corso della storia tra Paesi così lontani e diversi. Furono fondate moschee in diverse città e la religione attecchì molto bene. Alcune tombe e luoghi di venerazione attirano ancora oggi le visite di pellegrini. Nánjīng (南京) divenne intorno al volgere del millennio un importante centro di studi islamici.

Nel corso della storia moltissime figure di primaria importanza (generali, ministri, governatori,…) furono di fede mussulmana e si può parlare di uno sviluppo di una cultura specifica all’interno nel contesto generale della cultura cinese.

Nel 1070 una grande comunità di religione mussulmana proveniente dall’Asia Centrale fu inviata a colonizzare una zona ai margini nord-orientali del Paese, ove si organizzò con un proprio gruppo dirigente ed una carta autonomia. In seguito più di 10.000 di loro dovettero essere ricollocati più a sud, in altre province.

Sotto gli Yuán (1271 – 1368), di origine mongola, e sotto i Míng (1368 – 1644) moltissimi mussulmani rappresentarono il Paese come ambasciatori e viaggiatori e diedero il loro importante contributo tecnico alla conduzione della vita del Paese. Fu anche la loro grande competenza a rendere possibile la costruzione della grande capitale degli Yuán, Dàdū (大都 “Grande Capitale”) o Khanbaliq, cioè quella Cambalù visitata da Marco Polo, che dopo alterne vicende ritornò ad essere capitale col nome di Běijīng (北京 “Capitale del Nord”, che in Italia chiamiamo “Pechino”) ed è oggi il principale centro politico e culturale della Cina.

Tra le religioni di importazione l’Islàm è, dopo il Buddismo, una di quelle che hanno avuto maggior fortuna, contando oggi più di 20 milioni di adepti ufficialmente censiti, in gran parte abitanti le regioni del nord ovest. Stime non ufficiali parlano anche di 100 milioni di fedeli. A Pechino ce ne sono circa 200.000, alcuni dei quali gestiscono grandi ristoranti. I Mussulmani di Cina sono una delle minoranze riconosciute e tutelate da apposite istituzioni statali.

7 Guerre in Asia Centrale

Il periodo dei Táng fu senza dubbio un’epoca di grandi conquiste civili in cui vennero impiantate nobilissime istituzioni. Le arti e le scienze ebbero notevole sviluppo e furono fondate scuole e luoghi di studio. Riforme sociali, agricole ed economiche migliorarono le condizioni della popolazione. Insomma un’era di splendore. Ma d’altra parte ci furono anche alcuni episodi di guerra, anche se va sempre ricordato che la storia della Cina ricorda assai meno conflitti bellici di quella europea.

Nella Battaglia del Talas (怛罗斯会战 Dá luósī huìzhàn 751) si affrontarono le truppe del Califfato degli Abbasidi (العبّاسيّون‎ al-‘Abbāsīyūn) e quelle dell’Imperatore Xuánzōng (玄宗 685 – 762) e dei loro tanti alleati per il controllo della regione del fiume Sir Darya e dell’Asia Centrale. Fu raggiunto allora il punto più occidentale di tutti i tempi dell’espansione territoriale cinese ad ovest, dopo un lunga avanzata vittoriosa e l’annessione di molti territori. Gli Abbasidi, che avevano appena sconfitto altri califfati rivali ed erano al culmine della loro potenza militare, fermarono i Cinesi e si mantennero saldamente in possesso di quelle zone strategiche per i traffici della Via della Seta. Dai prigionieri cinesi catturati nel corso del conflitto appresero i segreti di alcune tecnologie quali quella della carta, che infatti si diffuse di li a poco al mondo mediterraneo. Questa e poche altre guerre di minore entità combattute in quella regione hanno qualche interesse riguardo gli scambi culturali tra Cina ed Europa.

 

III I Mongoli alle porte dell’Europa e nel Vicino Oriente

8 Terrore in Europa

Nel 1235 Fra’ Giuliano (Julianus barát), un frate domenicano ungherese, si mise a capo di una spedizione che oggi definiremmo antropologica che aveva per scopo ritrovare delle comunità di Magiari “originari” da cui si sarebbero staccati quelli che invadendo la Pannonia avevano dato origine all’Ungheria (Magyarország). In un’epoca in cui le carte geografiche riportavano spesso leggende ed in cui abbondavano le cause di morte per tutti i viaggiatori questo frate riuscì a trovare le tracce degli spostamenti di popolazioni nomadi di quattrocento anni prima e trovò effettivamente popolazione di lingua magiara alla confluenza dei fiumi Volga e Kama. In gran parte convertita all’Islàm, questa popolazione era contesa tra i Califfi mussulmani ed i Principi russi.

Là Giuliano sentì le prime storie sui terribili Tartari, nome dato ai Mongoli nell’Europa dell’Est, che poi ebbe modo di vedere all’opera in un secondo viaggio in quella regione. Al suo ritorno portò storie raccapriccianti di crudeltà militare ed un ultimatum alla sottomissione per i Principi ungheresi.

Ecco arrivare per la prima volta in Europa la paura dell’invasione mongola. Ad essa seguirono i fatti con un’impressionante serie di assalti ed annessioni territoriali che sottomisero gran parte dell’Europa orientale. A confermare le nere previsioni di Giuliano l’invasione mongola si trattò di una serie di stragi e distruzioni di proporzioni inaudite. Le vittime furono milioni.

In un tempo brevissimo le tribù dei Mongoli si erano riunite ed avevano travolto militarmente tutte le popolazioni e le grandi potenze dell’Asia che avevano potuto raggiungere, per affacciarsi all’Europa dopo aver attraversato le pianure che la cingono ad oriente ed aver sottomesso quasi tutti gli stati mussulmani. Nella direzione opposta dopo qualche scontro marittimo sfortunato con i Giapponesi avevano deciso di non insistere e di consolidare il loro dominio in Cina.

Del resto avevano fondato l’impero dalla maggiore estensione territoriale contigua della storia e si erano fermati verso la metà del XIII secolo sostanzialmente per problemi interni del gruppo dirigente. Avevano infatti scoperto di essere non tanto un popolo vittorioso ma più che altro una grande comunità militare nata per evoluzione storica da gruppi sparsi di allevatori frammentati per secoli in clan rivali. La seconda metà del secolo la dedicarono ad organizzare le strutture periferiche, i khanati, affidandoli ciascuno ad un parente nobile del Gran Khan, e ad apprendere spesso dai vinti l’arte del governo. Se abbastanza fondate sono le testimonianze di atrocità in battaglia e di crudeltà anche contro i civili, purtroppo comuni in quei secoli anche in altri contesti, occorre notare che la pax mongolica garantì anche forme di sviluppo importanti. Nella regione del Volga il dominio dei Tartari rimase lontano dalla cultura delle popolazioni di lingua slava sottomesse ed altrettanto accadde in Asia Centrale. L’Ilkhanato di Persia vide invece i vinti conquistare culturalmente i vincitori e lo stesso accadde in misura ancor più marcata in Cina.

9 Il Papa scrive ai Mongoli

La fulminea espansione mongola, che nel 1242 secolo aveva raggiunto ad occidente la Slesia, il Danubio e la Croazia, spaventò moltissimo i sovrani europei che non potevano apprezzare i positivi effetti che il controllo stretto di un’unica potenza su tali estensioni (dal Mare del Nord fino all’Oceano Pacifico) poteva avere sui commerci ed i contatti. I Mongoli, inoltre, avevano travolto molti Paesi del blocco mussulmano, impegnandone ingenti forze militari che erano state sottratte allo scontro con l’Europa. Gli Abbasidi erano stati spazzati via e gli Ayyubbidi ( الأيوبيون‎ al-‘Ayyubyun), che li avevano rimpiazzati nel Vicino Oriente ed in Africa settentrionale, avevano perso la Siria e resistevano solo in Egitto.

Per fermare i Mongoli l’Imperatore del Sacro Romano Impero, Federico II di Svevia (1194 – 1250), aveva fatto appello all’unione di tutti i Principi cristiani ed altrettanto avevano fatto i Papi del tempo. Quando, per ragioni interne, l’espansione mongola cessò Papa Innocenzo IV (1195 – 1254) pensò che poteva essere venuta l’occasione di tentare contatti diplomatici. Nel 1244 da Lione, dove si sarebbe tenuto un Concilio di lì a poco, inviò il francescano Lourent de Portugal, di cui però non sappiamo granché, nemmeno se sia realmente partito. Questa, per quanto dubbia, fu la prima delle quattro delegazioni sancite ufficialmente dal Concilio di Lione del 1245[G1] .

Certamente partì da Acri, in Palestina, il domenicano Ascelino di Lombardia, domenicano, insieme a Simone di San Quintin (? – 1248), che avrebbe poi dato un resoconto della spedizione, e ad altri uomini esperti di alcuni dei territori da attraversare. In Persia incontrarono il valorosissimo generale mongolo Baiju (? – 1260) che ne era governatore. Per capire ciò che accadde occorre tenere conto del contesto storico e delle mentalità diffuse negli ambienti dirigenziali di questi due mondi, quello della Chiesa Cattolica e quello dell’Impero Mongoli: le ambascerie papali portavano solitamente messaggi dal tono piuttosto minaccioso ed intimazioni alla conversione a Santa Romana Chiesa; presso le corti dei khan, invece, si era abituati a messaggi di sottomissione, accompagnati da lauti tributi, a richieste di alleanze militari od al limite, ma era caso rarissimo, si potevano comprendere delle sfide di tipo cavalleresco. L’incomunicabilità tra questi due modi di pensare era assolutamente inevitabile. Gran parte delle ambascerie tra l’Europa ed i Khan, sempre mediate da religiosi, fu così sostanzialmente inutile. In questo caso Ascelino si mostrò piuttosto arrogante rifiutando di inginocchiarsi al cospetto del generale se non si fosse immediatamente convertito e battezzato. Il generale andò su tutte le furie, li chiamò “cani” e prese a male parole anche il Papa. La delegazione, che, tra l’altro non aveva portato né doni né tributi, non vene uccisa solo in virtù dell’alto valore dell’ospitalità e del rispetto che presso i Mongoli era conferito agli ambasciatori. Fece ritorno a Lione accompagnata da due ambasciatori mongoli nel 1248 recanti una lettera di Baiju che intimava al Papa di sottomettersi. Innocenzo IV affidò ai due ambasciatori una bolla in cui chiedeva almeno di smetterla di uccidere i Cristiani e li equipaggiò per il viaggio di ritorno.

Intanto, nel 1245 era partita un’altra delegazione diretta più a nord. Il francescano Giovanni di Pian del Carpine (1182 – 1252), uno dei primi compagni di Francesco d’Assisi (1182 – 1226) e uomo di grande esperienza diplomatica, partì da Lione all’età di 63 anni per portare una lettera di Innocenzo IV al Khan dei Mongoli stanziati sul Volga. Nel lungo tragitto raccolse anche altri francescani che conoscevano le lingue parlate nell’Europa dell’Est. Dopo un viaggio avventuroso e tortuoso, nel 1246 la delegazione incontrò sul Volga Batu Khan (1207 – 1255), che aveva da poco conquistato mezza Europa. Benché fosse potentissimo, il Khan disse che per le alleanze e per il permesso di predicare religioni nuove la competenza non era sua ma dovevano rivolgersi al Gran Khan, a Kakarorum, in Mongolia. Ed i religiosi, pur deboli e stanchi, partirono lungo piste piene di neve e raggiunsero quella città nello stesso anno. Nelle vicinanze era accampato il condottiero Güyük (1206 – 1248) che stava per diventare Gran Khan. I frati giunsero durante la sua incoronazione e vennero confusi tra i circa 4.000 delegati di Paesi vassalli ed alleati (duchi slavi, nobili dell’Europa dell’Est, sultani musulmani, maharaja indiani,…) che portavano doni, tributi e messaggi di auguri. La solita intimazione papale alla conversione venne ovviamente irrisa e dopo qualche mese i religiosi furono rimandati a Lione con l’invito per il Papa ed i sovrani europei a venire presso il Gran Khan e sottomettersi. Recavano a questo scopo una lettera in tre lingue (mongolo, arabo e latino) in cui si rivendicava a lui, signore di cotanto impero in terra, il compito di parlare con e a nome di Dio. Il ritorno dei frati attraverso il duro inverno asiatico li rese figure leggendarie, tanto più che tornavano da un regno di cui si favoleggiavano cose terribili. Nel 1247 recarono ad Innocenzo IV la sprezzante lettera che sanciva il fallimento della loro missione diplomatica. Avevano però raccolto molte informazioni e notizie sui misteriosi barbari che minacciavano l’Europa da Est.

La quarta delegazione papale ai Mongoli partita nel 1245 fu quella capitanata dal domenicano André de Longjumeau, esperto diplomatico che parlava arabo e altre lingue dell’Asia occidentale. Questi seguì un itinerario simile a quello di Ascelino, ma con maggiori risultati. Riuscì infatti a stabilire contatti con i sovrani dei Paesi mussulmani attraversati e con gli alti prelati delle varie chiese cristiane orientali che allora rivaleggiavano con quella di Roma. Fu inoltre ricevuto da alcuni importanti religiosi che il Khan aveva incaricato della protezione dei Cristiani. Rientrò a riferire al Papa nel 1247.

10 Alleanza contro i Mussulmani

Alla fine del 1248 il Re di Francia Luigi IX (Louis IX 1214 – 1270), che fu poi fatto Santo dalla Chiesa Cattolica, si trovava a Cipro (Κύπρος) per organizzare la VII Crociata, una terribile spedizione militare che avrebbe insanguinato la costa orientale del Mediterraneo sino al 1254 e che avrebbe avuto un esito finale sfavorevole ai Cristiani. Là fu raggiunto da due cristiani nestoriani, David e Marcus inviati dal Gran Khan Güyük. Uno di loro aveva conosciuto personalmente André nel corso della sua precedente missione. Con la sua collaborazione linguistica, la delegazione dei Mongoli presentò al Re ed ai rappresentanti del Papa che lo accompagnavano una lettera del Gran Khan che, in luogo di pretendere sottomissioni, proponeva con tono assai rispettoso un’alleanza militare per sconfiggere i Mussulmani che si stavano riorganizzando in Egitto ed in Siria, e richiedeva di rispettare confessioni cristiane diverse da quella cattolica (Greca, Armena, Nestoriana, Giacobita, eccetera). È probabile che qualche intellettuale degli ambienti del clero nestoriano lo avesse convinto dell’opportunità di un cambiamento di condotta verso i sovrani d’Europa nell’imminenza del pericolo rappresentato dalla ripresa dei Mussulmani.

I Crociati credettero di capire che il Gran Khan si fosse convertito al Cristianesimo e decisero di far accompagnare i due messi in ritorno da una ricca delegazione capitanata da André e composta da altri domenicani, da alcuni monaci, da altri religiosi e da due ufficiali dell’esercito di Francia. Furono inviati anche ricchi doni, finalmente degni di un Re e di un Khan. Partita ai primi del 1249, la delegazione fu accolta benissimo lungo il tragitto, spesso scortata da soldati inviati dal Khan stesso. Giunse però al campo imperiale poco dopo che Güyük era morto, forse avvelenato da una congiura. Reggeva provvisoriamente l’impero la sua vedova Oghul Qaimish, donna molto energica che non volle continuare questa politica di distensione con l’Europa e rimandò sdegnosamente indietro la delegazione con una lettera contenente le solite intimazioni a sottomettersi. Raggiunto il loro Re in Palestina nel 1251 i delegati gliela recapitarono delusi.

Si apriva, peraltro, un periodo di disordini e lotte intestine all’interno del gruppo dirigente dell’Impero Mongolo che portò presto a rotture tra i khanati. Ciò ebbe conseguenze anche nella vita delle popolazioni sottomesse e sulla classe militare mongola in molti Paesi. In più il risveglio dei Mussulmani era irrefrenabile.

Mentre ancora sul Mediterraneo infuriava la VII Crociata, elementi del clero armeno diffusero la notizia che alcuni familiari del Gran Khan si erano convertiti al Cristianesimo e che anche lo stesso Khan stava per farlo. Ciò, oltre a racconti sulla vivacità della Chiesa Nestoriana presso i Mongoli, convinse Luigi IX ad inviare un’altra delegazione col compito di convertire tutti i Tartari e predicare nell’Europa Orientale. A capo della delegazione fu scelto Guglielmo di Rubruk (1220 – 1293), francescano fiammingo che aveva collaborato lungamente alle missioni diplomatiche della corte di Francia. Insieme a lui un interprete ed un altro frate assai esperto di diplomazia, tale Bartolomeo da Cremona. Partiti da Acri nel 1253 raggiunsero anche loro Batu Khan, che ancora una volta inoltrò la questione al Gran Khan di Karakorum, che allora era un tal Möngke (1208 – 1259). E i religiosi partirono, questa volta per essere bene accolti. L’esito politico e diplomatico fu scarso come nelle precedenti missioni, ma almeno ebbero modo di constatare che moltissimi prigionieri Georgiani, Armeni, Russi ed Ungheresi godevano di una relativa libertà di culto. C’erano chiese e templi di altre fedi. Probabilmente era diffuso il Buddismo sincretico del Mahâyâna (महायान in cinese 大乘 dàchén, Grande Veicolo) e certamente molti mongoli erano cristiani nestoriani. Secondo Guglielmo il Khan si divertiva a far dibattere pubblicamente Buddisti, Cristiani e Mussulmani su vari temi etici e religiosi. Al ritorno dei prensuli nel 1255 ad Acri la crociata era già finita malissimo per gli invasori europei.

11 L’Ilkhanato cerca l’Europa

L’Ilkhanato di Persia, nei cui quadri dirigenti c’erano molti Cristiani Nestoriani, prese a temere la forza dei movimenti islamici interni e della riorganizzazione di un potere basato sulla fede mussulmana nella regione. In Egitto ed in Siria si erano imposti i Mamelucchi (مماليك, mamālīk), un’altra comunità militare di antiche origini asiatiche piuttosto composite (in maggioranza Turchi, avevano in mezzo anche discendenti di Greci, Ungheresi e persino Mongoli) che da secoli serviva i sovrani dei Paesi mussulmani. Nel 1260 la loro cavalleria riuscì a sconfiggere i Mongoli ed i loro alleati nella battaglia di ʿAyn Jālūt (جالوت‎ عين) in Galilea pur con ingenti perdite.

I Crociati Franchi, che ancora occupavano alcuni territori sulla costa orientale del Mediterraneo, saputo dell’esito non sapevano se essere contenti perché uno scontro diretto con i Mongoli anche in quella regione si faceva meno probabile o scontenti della ripresa di un potere mussulmano. Avevano osservato con grande cautela gli eventi, permettendo talora anche ai Mamelucchi di passare per i territori da loro controllati per andare a battersi contro quelli che erano anche loro temutissimi nemici. Viceversa nel 1256 alcuni Crociati avevano attaccato i Mongoli in una zona possesso dei Mamelucchi uccidendo un parente del Khan. Nel 1259 Papa Alessandro IV (1185 – 1261) aveva addirittura invitato i Cristiani ad una crociata contro i Mongoli.

C’erano peraltro già state alcune alleanze tra i Mongoli ed alcuni Stati cristiani, tra cui la Georgia (საქართველო Sak’art’velo), che aveva un cristianesimo diverso da quello di Roma, il Principato crociato di Antiochia ed il Regno degli Armeni di Cilicia (Կիլիկիոյ Հայկական Թագաւորութիւն Kilikioy Haykakan T’agaworut’iwn). Quest’ultimo era un Paese sorto nel XI secolo in seguito all’emigrazione di una grande comunità di esuli dall’Armenia, a causa dell’espansione dei Selguichidi (سلجوقيان‎ , Ṣaljūqīyān) turco-persiani. Nato dunque dalla resistenza ai Mussulmani ed ubicato nel bel mezzo delle zone di influenza di grandi potenze dell’epoca (Bizantini, Turchi ed ora anche Mongoli) era diventato un coriaceo stato guerriero. Era stato lambito dalle crociate ed aveva stabilito diverse alleanze soprattutto in funzione antimussulmana. Dal 1247 si era sottomesso ai Mongoli. Nel 1254 il Re Hethum I (Հեթում Ա ? – 1271) si era recato in visita dal Gran Khan a Karakorum ed aveva fatto visita al Khan del Volga ed all’Ilkhan. Il suo lungo viaggio era stato documentato dal cronista Kirakos di Grandzak (Կիրակոս Գանձակեցի 1202 – 1271) che lo aveva seguito. Furono probabilmente elementi del clero armeno a suggerire l’idea di un’alleanza tra Franchi e cristianità romana da un lato ed i Mongoli dell’Ilkhanato dall’altro.

Nello stesso anno della battaglia di ʿAyn Jālūt, 1260, venne inviato in missione esplorativa presso il Khan Hulagu (1217 – 1265) il domenicano inglese David di Ashby, che sarebbe rimasto in Persia sino a che il nuovo Khan Abaqa (1234 – 1282) lo inviò al secondo Concilio di Lione nel 1274 per rappresentarvi l’Ilkhanato con una delegazione di nobili mongoli che si fecero battezzare per l’occasione alla presenza del Papa.

Nel 1261 divenne papa, col nome di Urbano IV, il Patriarca di Gerusalemme Jacques Pantaléon (1195 – 1264) che aveva caldeggiato l’idea dell’alleanza. Subito inviò tale Giovanni d’Ungheria, di cui si sa pochissimo, alla corte del Khan. Hulagu lo rimandò indietro con una lettera in cui, pur richiedendo la sottomissione al Gran Khan, chiedeva che un rappresentante del Papa venisse a battezzarlo. Diceva anche di aver conosciuto André de Longjumeau e di aver da questi capito le differenze tra i ruoli del Papa ed del Re di Francia. Auspicava con il loro aiuto di sconfiggere i Mamelucchi. Allora avrebbe potuto consegnare Gerusalemme ai Cristiani. La lettera venne letta anche da Luigi IX. Il Papa rispose con una bolla in cui si compiaceva della decisione di convertirsi ed incaricava il Patriarca di Gerusalemme di ulteriori manovre diplomatiche.

Un’altra lettera di Hulagu venne intercettata dai Mamelucchi. Il latore era forse Ricoldo da Montecroce (1243 – 1320), un domenicano che ritroveremo anni dopo a Mossul (الموصل al-Mawṣil). In questi anni era in servizio da tempo presso il Khan come traduttore. Catturato dai Mamelucchi, riuscì a tornare in Persia al suo lavoro e rientrò in Europa al seguito di David nell’ambasceria mongola al Concilio di Lione del 1274.

La corrispondenza proseguì anche col nuovo Khan Abaqa, figlio di Hulagu, succedutogli alla sua morte nel 1265. Questi era di religione buddista tibetana, fede che in quel periodo aveva grande successo tra i Mongoli, ma era sposato con una figlia illegittima dell’Imperatore Bizantino, cristiana ortodossa. Scrisse lettere al Papa e ad alcuni sovrani europei, che perdevano uno dopo l’altro i loro domini in Terrasanta. Il suo aiuto alla VIII crociata nel 1269 fu di poco conto, essendo il grosso delle forze militari impegnato in altre emergenze. Fu maggiore nella IX, ma non si raggiunsero risultati notevoli se non dal punto di vista diplomatico.

Al Concilio di Lione, infatti, Papa Gregorio X (1210 – 1276) promulgò una nuova crociata in alleanza tra Cristiani d’Occidente, Bizantini e Mongoli, vietando anche per tutti il commercio con i Mussulmani. Il Khan inviò anche alcuni suoi consulenti militari a Cipro che furono messi a dirigere le operazioni.

La proposta suscitò scarsissimo entusiasmo presso i sovrani d’Europa che sostanzialmente la boicottarono con discrezione, con l’unica eccezione delle Repubbliche Marinare italiane che vi vedevano occasione per grandi guadagni. Alla fine la crociata non si fece. Lo scontro tra Ilkhanato e Mamelucchi divenne così un affare tra loro, con i Crociati che via via venivano espulsi dalla regione.

12 Astronomi e religiosi dalla Cina

Il Figlio di Abaqa, Arghun Khan (1258 – 1291) prese il potere sull’Ilkhanato tra movimentate vicende nel 1284 e subito ritentò l’alleanza con i Crociati. Per primo inviò Isa Tarsah Kelemechi (愛薛 Ài xuē 1227 – 1308) uno scienziato siriano di fede nestoriana che serviva il Gran Khan Kublai (忽必烈 Hūbìliè 1215 – 1294) a Pechino come medico e responsabile di un ufficio imperiale per lo studio dell’”Astronomia Occidentale”.

Isa era uno scienziato a tuttotondo. Inizialmente si era dedicato alla medicina, provenendo da una famiglia molto impegnata in questo campo. Faceva inoltre parte di una commissione incaricata di studiare il cielo con i metodi “dei mussulmani”, cioè con quel corpo di conoscenze che era tramandato e prodotto soprattutto in Siria ed in Persia e che derivava in gran parte dagli studi Egizi, Babilonesi e Greci.

Vediamo qui per la prima volta il prestigio legato allo studio delle scienze ed in particolare dell’astronomia in Cina e l’interesse che lo stato rivolgeva alla ricerca in questo campo. Kublai fondò ben due osservatori astronomici a Pechino e richiamò scienziati per lo studio delle costellazioni e per le osservazioni di eclissi, comete ed altri fenomeni celesti.

Già negli anni ’50 del XIII secolo era giunto a Karakorum per lavorare alle osservazioni astronomiche lo scienziato persiano Jamal ad-Din ( جمال الدين محمد بن طاهر بن محمد الزيدي البخاري Jamāl alDīn Muḥammad ibn Ṭāhir ibn Muḥammad alZaydī alBukhārī, 扎馬魯丁 Zhāmǎlǔdīng) che poi Kublai aveva voluto a Pechino al suo servizio per dirigere uno degli osservatori, in cui operava almeno una quarantina di astronomi provenienti dai Paesi islamici. Aveva fatto portare sfere armillari, astrolabii ed altri strumenti ed aveva scritto libri sul calendario ed opere di argomento geografico originariamente in Persiano e tradotte nel corso del secolo successivo in Cinese.

Il Ricci troverà a Pechino nel XVII secolo un “Collegio Musulmano” di astronomi e lo supererà in risultati di predizione ed osservazione con le conoscenze galileiane. L’astronomia era studiata in entrambi i periodi sia per un uso astrologico e magico, essendo tributate alle date ed alle configurazioni celesti molti significati esoterici, sia per il problema della definizione del calendario. Si trattava di un tema cruciale per la programmazione dei lavori agricoli e per tutta la vita dell’Impero, cui era dedicato un apposito ministero che ogni anno promulgava il calendario ufficiale. Proclamato imperatore di una dinastia nuova e di origine straniera, Kublai dedicò uomini e mezzi allo studio del cielo ed alla suddivisione del tempo per affrontare gli immensi problemi di organizzazione che gli si presentavano e forse anche per cercare nella venerazione di astri e configurazioni celesti una forma di legittimazione.

Isa era piuttosto noto in Cina ed in Persia, oltre che come scienziato, anche come cristiano avendo promosso presso Kublai alcune politiche antimussulmane ed essendo riuscito ad evitare che la famiglia imperiale si convertisse al Buddismo tibetano. Parlando siriaco, arabo, persiano e mongolo, era parso l’uomo più adatto per questo incarico diplomatico. L’ambasciata raggiunse il Papa nel 1285 richiedendo una nuova crociata per spazzare via i Mussulmani anche dall’Egitto.

Poco prima, nel 1281, un altro cinese era stato eletto Patriarca della Chiesa Nestoriana: Rabban Marcos detto Yahballah III (1245 – 1317) che era partito in pellegrinaggio dalla natìa Pechino per raggiungere Gerusalemme ma si era dovuto fermare in Persia a causa dell’avanzata dei Mamelucchi. Là aveva fatto la sua notevole carriera nella gerarchia ecclesiastica. Quando seppe che il Khan voleva inviare nuovamente messi al Papa gli raccomandò per l’incarico il suo maestro e compagno di viaggio Rabban Bar Sauma (拉賓掃務瑪 Lā bīn sǎo wu mǎ 1220–1294), nato anch’egli nei pressi di Pechino.

Questi partì nel 1287 con un largo seguito di cui facevano parte anche il commerciante e banchiere genovese Tommaso D’Anfossi e qualche altro italiano. Viaggiò per mare passando per l’Impero Bizantino e la Sicilia dove vide eruzioni vulcaniche e battaglie. A Roma non poté parlare col Papa Onorio IV che era morto da poco. Fu accolto ovunque benissimo da molti sovrani con cui entrò in contatto, visitando l’Italia (in special modo Genova) e la Francia e si spinse sino alle coste atlantiche della Spagna. Conobbe molti condottieri che guerreggiavano per l’Italia. Fu il primo ambasciatore di origine cinese in Europa della storia. Tornò in Persia accompagnato da nobiluomini francesi nel 1288, inaugurando relazioni stabili tra i due Paesi.

Nel 1289 giunse alla corte di Arghun Khan il domenicano toscano Ricoldo, che aveva già servito l’Ilkhanato, con una bolla papale. La sua missione oltre al consolidamento delle relazioni diplomatiche mirava anche a cercare di ricomporre la frattura secolare tra Roma e la Chiesa Orientale. È forse la prima missione che vediamo con reali motivi religiosi. Ricoldo prese contatti con Yahballah III e curiosamente riuscì a convincerlo dell’eresia della dottrina nestoriana della dualità del Cristo. Il patriarca cercò allora di convincere la gerarchia ecclesiastica a lui sottoposta della necessità di riunirsi con la Chiesa di Roma ma i vescovi non accettarono e lo destituirono da ogni carica. Nel 1304 divenne ufficialmente cattolico e si ritirò a vita privata.

13 Genovesi

Infine il Khan fece partire il diplomatico Buscarello de’ Ghizolfi, nobile genovese che era da tempo al suo servizio con incarichi militari. Questi si trattenne per corti europee dal 1289 al 1305 tentando di riunire gli eserciti europei per un’altra crociata e promettendo che l’Ilkhan si sarebbe convertito e battezzato dopo la presa di Gerusalemme. Il messo incontrò moltissimi sovrani, ma nessuno si mosse in aiuto dell’Ilkanato né della Città Santa ed i risultati di quelle ambascerie consistettero nell’instaurazione di relazioni diplomatiche (gli Inglesi inviarono anche un ambasciatore stabile) e nell’apertura di nuove vie commerciali.

In quel periodo in Persia al servizio dell’Ilkhan c’erano anche altri italiani provenienti soprattutto da Pisa, Siena e Venezia con ruoli diversi nelle alte gerarchie militari e nell’amministrazione. Nel 1290 circa 800 tecnici navali genovesi si recarono sul fiume Tigri per la costruzione di una flotta che bloccasse i traffici commerciali dell’Egitto verso l’India attraverso il Mar Rosso. I Genovesi, però, avevano sempre aiutato i Mamelucchi in cambio della loro protezione dalla pirateria che questi praticavano, ma d’altra parte erano anche in buoni rapporti con gli Armeni e dovettero scegliere un campo. Nei cantieri persiani i tecnici cominciarono a costruire le navi ma poi, per ragioni ancora non chiare, presero a combattersi tra loro e si uccisero. Genova fece pace con i Mamelucchi ed uscì dal conflitto.

Acri fu espugnata dai Mamelucchi nel 1291. Alla fine anche i dirigenti mongoli dell’Ilkhanato, sempre meno sicuri del loro dominio, si convertirono all’Islàm e cercarono di usarne la forza di coesione sociale per consolidare il loro potere. Non vi riuscirono e a metà del XIV secolo l’Ilkhanato si disgregò.

 

IV. In Cina sotto gli Yuán

14 Stranieri tra i Mongoli

La presenza di Genovesi e Pisani all’interno delle strutture diplomatiche e militari dell’Ilkhanato si spiega probabilmente anche con missioni conoscitive (oggi diremmo di spionaggio) da parte delle Repubbliche Marinare e dalla loro volontà di instaurare relazioni redditizie con tutte le potenze del Vicino Oriente. Ma questo fu possibile soprattutto per l’attitudine dei Mongoli a valorizzare le competenze degli stranieri. I Mongoli dell’Estremo Oriente erano in gran parte di religione sciamanica e cristiani nestoriani. Quando dovettero porsi il problema di organizzare un impero enorme e complesso che dopo la separazione tra i diversi khanati occupava Mongolia, Cina e parte dell’Asia Centrale reclutarono nei territori conquistati o altrove i tecnici più preparati che poterono trovare in tutti i campi, dalla tassazione al governo, dall’agricoltura all’ingegneria. Una gran parte degli ufficiali e dei funzionari che occuparono gli incarichi più importanti erano mussulmani provenienti dalle regioni occidentali. Tanti erano anche cristiani ed alcuni ebrei. Moltissimi erano stranieri, talora chiamati per la loro fama di buoni tecnici. Si può dire che, benché molto venne ereditato dalla burocrazia cinese tradizionale, l’ossatura amministrativa e tecnica della dinastia Yuán (1271 – 1368) cui i Mongoli dettero vita fu inizialmente costituita da funzionari scelti tra i migliori uomini disponibili, che parlavano lingue molto diverse, professavano le più diverse fedi ed avevano usanze che dovevano apparire curiose alla maggioranza della gente intorno. D’altra parte anche i Mongoli stessi erano una minoranza al potere sulla maggioranza di cultura Hàn ().

Tale tolleranza delle diversità individuali venne poi sconfessata in alcune occasioni nel corso della storia cinese. Le religioni vennero talora viste con sospetto, come veicolo di idee potenzialmente pericolose per la struttura ideologica del potere e del regime economico. Anche sotto gli Yuán ci furono momenti in cui, ad esempio, vennero proibita la circoncisione e la preparazione dei cibi secondo le procedure coraniche, quando gli intellettuali di fede nestoriana riuscirono ad avere credito presso l’imperatore e tentarono di imporsi come unico elemento religioso. Ci furono altri episodi di intolleranza talora anche con l’esilio di individui e comunità o addirittura uccisioni.

15 Veneziani

I mercanti ed i banchieri delle Repubbliche Marinare italiane avevano basi sul Mar Nero e in tutta la costa orientale del Mediterraneo. I Veneziani potevano contare addirittura su quartieri esclusivi nelle principali città dell’Impero Bizantino e su trattamenti speciali in campo fiscale e civile. La famiglia Polo aveva agenzie, magazzini e residenze a Costantinopoli ed in Crimea.

Pochissimi Europei erano a conoscenza delle descrizioni date dai missionari degli anni ”quaranta” e “cinquanta” del XIII secolo e persino alcuni tra i più alti dirigenti del continente avevano conoscenze geografiche intrise di leggenda. I mercanti italiani stanziati in Oriente, invece, avevano fatto tesoro delle esperienze legate alle spedizioni diplomatiche verso e dall’ambiente dei Mongoli e avevano colto le possibilità di profitto offerte dalle differenze produttive tra distretti diversi posti ad enorme distanza con vie di comunicazione relativamente sconosciute alla concorrenza ma generalmente percorribili. È però probabile che la loro attenzione si rivolgesse al più all’Ilkhanato od al Khanato del Volga (Orda d’Oro) ove arrivavano i terminali occidentali della Via della Seta. La Cina fu anche per i Polo una specie di incidente fortunatissimo.

Nel 1261 Niccolò (? – 1294) e Matteo Polo (? – 1309) partirono con merci e pietre preziose per la regione del Volga per commerciare con Russi e Mongoli dell’Orda d’Oro. Il Khan locale, cugino del Gran Khan Kublai, li accolse bene e li trattenne per circa un anno. Probabilmente fu allora che ai Polo venne descritto lo splendore del resto dell’impero. Di lì a poco Kublai avrebbe fatto costruire la capitale Khanbaliq, cosa che dimostra la positività della congiuntura di quegli anni. Quando i Polo decisero di ripartire trovarono le vie per il Mar Nero sbarrate da qualche conflitto. Pensarono allora di fare un giro più largo e attraversarono i fiumi Volga ed Ural, giungendo nel giro di due mesi a Bukhara dove si trattennero 3 anni commerciando ed imparando molte lingue parlate dagli abitanti della città e dai tanti mercanti di passaggio. Si accodarono ad una delegazione ufficiale che portava un messaggio dell’Ilkhan al fratello Kublai e giunsero al suo cospetto nel 1264. Questi si stava facendo conquistare dalla civiltà dei suoi sudditi ed era curiosissimo di ascoltare i racconti dei viaggiatori. Saputo qualcosa sull’Europa e sul Cristianesimo chiese ai Polo di accompagnare a Roma un suo rappresentante che chiedesse al Papa l’invio di 100 “savi” della religione cristiana ed un po’ d’olio santo della lampada che ardeva sul Santo Sepolcro a Gerusalemme. I fratelli ed il messo imperiale partirono ma quest’ultimo morì per la via. Il viaggio di ritorno fu facilitato da una specie di distintivo d’oro dato ai Polo dal Gran Khan che apriva tutte le porte.

Giunsero ad Acri nel 1269 durante la smobilitazione della IX Crociata, per apprendere della morte del Papa. Attesero dunque a Venezia che nel 1271 venisse nominato Gregorio X. Questi li ricevette, comprese l’importanza del contatto che si poteva aprire e diede loro doni, lettere e due frati domenicani (Niccolò da Vicenza e Guglielmo da Tripoli) per il Gran Khan. I Polo ripartirono portando con loro lettere, doni, frati, mercanzie ed anche il giovane Marco (1254 – 1324), figlio di Niccolò. I due frati si fermarono in Cilicia. I tre mercanti, invece, proseguirono con un percorso un po’ tortuoso (giunti al Golfo Persico scartarono la possibilità di un viaggio per mare secondo un tracciato probabilmente noto ai mercanti Mussulmani o Persiani e risalirono per la Via della Seta). Il viaggio durò diversi anni durante i quali gli abili mercanti commerciarono nei più importanti centri asiatici. Raggiunsero il Khan in uno dei suoi castelli a Shàngdū (上都) nel 1275.

Nel Milione Marco racconta vere e proprie meraviglie oltre che di essere stato fiduciario dell’Imperatore e di aver capitanato alcune missioni diplomatiche ed esplorative sino in Sri Lanka ed in altri Paesi asiatici, di avere combattuto alla testa delle truppe imperiali e di avere addirittura governato una provincia ma non è detto che alcune di queste cose non siano frutto delle capacità narrative dello scrittore Rustichello da Pisa che compose l’opera in dialetto Franco-veneto, una lingua mista che si parlava nei porti mediterranei frequentati dai Veneziani. Senza dubbio questo testo è una delle opere più importanti per la costruzione di quell’idea di Cina come Paese ordinato e civile, con strade efficienti, imponenti opere idrauliche, servizi di posta e stazioni per il cambio dei cavalli, carta moneta emessa da una zecca di stato, palazzi sontuosi circondati da giardini meravigliosi, con piante ed animali di luoghi lontani. Tutte cose che l’Europa conoscerà o tornerà a conoscere solo tra molto tempo. Il quadro della Cina e della sua cultura sarà poi completato dal Ricci al volgere del XVII secolo e dai missionari protestanti del XIX, per diventare allora una specie di popolarissimo sogno nei salotti dell’alta borghesia europea, che ne adorerà il vasellame, le stampe e, come sempre, i tessuti.

Marco racconta di consessi di sacerdoti ed astrologi di ogni Paese che dovevano studiare i segni del cielo. Un osservatorio era anche dentro il palazzo reale a Khanbaliq ed in esso i migliori matematici del momento chiamati dalla Persia cercava nodi compilare un calendario che mettesse d’accordo i mesi della tradizione e le stagioni. Il problema del calendario si trascinerà per secoli sino all’arrivo del Ricci che porterà l’astronomia greca ed il suo prerequisito più necessario: la matematica degli Elementi (Στοιχεῖα) di Euclide (Εὐκλείδης IV sec. p.E.v.).

Marco Polo non era né un missionario, né uno scienziato, ma piuttosto un uomo pratico, atto ai commerci ed alla diplomazia. Sapeva trattare con la gente e parlava correntemente almeno quattro delle tante lingue diffuse nell’immenso dominio del Khan che attraversò in lungo ed in largo. Ne visitò le regioni del sud e ne vide i confini occidentali, primo europeo a dare una descrizione dei Tibetani, delle genti rivierasche del fiume Mekong (湄公河 Méigōnghé) e delle popolazioni al confine dell’attuale Birmania. Nel 1284 guidò, con le sue grandi doti di viaggiatore, una spedizione allo Sri Lanka per recuperare il Dente di Budda, un’importante reliquia buddista probabilmente destinata ad accrescere il prestigio del Khan presso i suoi sudditi di quella religione. Kublai, che infatti aveva richiesto ai Polo un’ampolla dell’olio della lampada del Santo Sepolcro, aveva un interesse a metà tra la superstizione ed il collezionismo di oggetti preziosi carichi di valore simbolico. La ricerca di quello stesso dente sarà poi il pretesto con cui i Míng tenteranno la conquista dell’isola ai primi del XV secolo.

Marco fece anche un po’ di ordine anche tra i nomi geografici della Cina allora in uso distinguendo a settentrione il Catai (che i Romani chiamavano Serica cioè “il Paese della seta”) ed a meridione il Mangi (che i Romani avevano chiamato Sina). Da ciò nascerà un equivoco che nell’immaginazione degli Europei sdoppierà il Paese anche quando i Portoghesi giungeranno alle sue rive meridionali. Scrisse anche per la prima volta i nomi di tanti altri luoghi, compreso quello che i cinesi davano al grande arcipelago che non erano riusciti ad espugnare e che avevano lasciato dominio del sole nascente: il Cipango, odierno Giappone (日本国 Rìběn guó).

Non sappiamo perché i Polo dopo tanti anni fecero richiesta al Khan Kublai di poter tornare a Venezia. L’occasione si presentò quando in Persia venne a mancare la regina Bolgana (卜鲁罕 Bolǔhǎn ? – 1286) moglie principale del Khan Arghun. Questi chiese poco dopo al Gran khan Kublai, suo prozio, di mandargli un’altra nobildonna da sposare. Questi sei anni dopo scelse la giovane principessa Kököchin (阔阔真 Kuò kuò zhēn) e la affidò ai Polo perché con una ricchissima scorta la portassero al pronipote. La spedizione aveva anche lettere diplomatiche per il Papa e per altri sovrani europei. Era il 1292 e le popolazioni dell’Asia Centrale erano in conflitto. Anche tra i khanati si accendevano battaglie ed alcune tribù mongole cominciavano a ribellarsi e a darsi al saccheggio sui diversi percorsi della Via della Seta. La via di terra non era più tanto sicura ed i Polo decisero di tentare il viaggio per mare. Per imbarcare tutta la spedizione ci vollero 14 navi. Il periplo dell’Indocina e dell’India fu molto avventuroso, richiedendo una lunga sosta a Sumatra. Dopo 18 mesi di viaggio i Polo sbarcarono ad Ormuz (هُرمُز). Arghun era già morto. La principessa Kököchin andò in sposa al successore Ghazan (合贊 Hé zàn 1271–1304), che in seguito da cristiano nestoriano che era si sarebbe convertito all’Islàm col nome di Mahmud Ghazan. I Polo restarono suoi ospiti per 3 mesi. Poi nel 1295 dopo 24 anni di assenza raggiunsero Venezia.

Le informazioni geografiche ed antropologiche di Marco vennero rifiutate dai dotti geografi e le sue ambascerie non ebbero il dovuto credito. La difficoltà di comunicare l’esistenza di un mondo diverso anche nell’apertissima Venezia rischiò di relegare al mondo delle favole tutta questa esperienza. Quel che sappiamo oggi del viaggio dei Polo lo dobbiamo solo alla sventura di una sconfitta navale al largo della Cilicia, quando Marco, che era tornato a commerciare, venne fatto prigioniero dai rivali Genovesi e divise la cella con Rustichello. Questi, uomo di spettacolo e cantastorie, vide nelle confidenze incredibili del veneziano una trama eccitante. Il suo successo diffuse l’interesse per il mondo cinese. Da allora ai figli dei nobili italiani furono dati nomi come Cangrande, Argone o Cassano (da Ghazan).

16 Dalla Chiesa Cattolica ai Cinesi

Rabban Bar Sauma aveva recato al Roma la richiesta dell’Ilkhan Arghun di inviare missionari cattolici in Cina alla corte del Gran Khan Kublai. Nel 1289 (quindi prima del ritorno dei Polo) Papa Nicola (1227 – 1292) inviò il francescano Giovanni da Montecorvino (1246 – 1328) con moltissime lettere per l’Ilkhan Arghun, per altri khan dell’Impero mongolo, per il Gran Khan e per i patriarchi delle varie chiese d’oriente che sperava di poter riconciliare con quella romana. Aveva anche lettere per i Re di Armenia ed altri Paesi, persino per l’Imperatore di Etiopia, il che fa pensare che gli fosse stato affidato un incarico generale di evangelizzazione dei Paesi lontani. Nel suo seguito c’erano anche il domenicano Nicola da Pistoia (?) ed il ricco mercante Pietro di Lucalongo (?).

Viaggiarono per mare attraverso Madras ed altre città indiane, seguendo un itinerario nuovo per gli Europei, frequentato dai viaggiatori del mondo mussulmano. I Polo ci avevano forse pensato quando si erano affacciati ad Ormuz ma lo avevano scartato. Il religioso, che aveva una missione più evangelica che diplomatica, poteva avere interesse per l’India perché si riteneva che nella regione di Madras ci fossero comunità cristiane fondate addirittura dall’Apostolo Tommaso. Nel 1291 fu il primo visitatore europeo della costa orientale dell’India e vi fondò missioni cattoliche piuttosto fortunate. Prese proficuamente contatti con le comunità nestoriane della zona del Golfo del Bengala che avrebbero poi dato luogo ad alcune diocesi cattoliche molto importanti per la successiva penetrazione portoghese nella zona.

Nel 1294 giunse a Khanbaliq, dove si era appena insediato il successore di Kublai Khan, Temür (铁穆耳 Tiě mù ěr 1265 – 1307), che gli concesse di predicare. In questa attività ottenne un certo successo, sino a poter costruire alcune chiese di notevoli dimensioni ed in posizioni strategiche. Riuscì anche a fondare una scuola per ragazzi in cui si insegnava latino e greco. D’altro canto apprese la lingua del luogo e la usò per le preghiere, i canti e per i salmi, anticipando un uso delle lingue nazionali che sarà permesso ai cattolici solo nel XX secolo col Concilio Vaticano II. Tradusse anche il Nuovo Testamento e parti della Bibbia in lingua uigura, usata dai nobili dell’epoca. La traduzione completa della Bibbia in cinese sarà completata solo nel 1968 dal quarantennale lavoro del francescano siciliano Gabriele Allegra (1907 – 1976).

I successi di Giovanni, che convertì molti notabili strappandoli al Nestorianesimo, furono riferiti regolarmente al Papa e da lui molto apprezzati. Nel 1303 venne raggiunto dal francescano Arnoldo di Colonia e nel 1308 da un gruppetto di vescovi (Gerardo, Peregrino ed Andrea da Perugia) inviati dal Papa per nominarlo arcivescovo di Pechino. Altri francescani vennero inviati nel 1312 per gestire le diverse diocesi fondate. Nel corso di una ventina di anni Giovanni riuscì a diffondere la fede cattolica ed a moltiplicare missioni ed insediamenti. Tra i più attivi quello di Quánzhōu (泉州 detta Zaiton) nel Fújiàn (福建). Altri furono nel nord e nella parte orientale del Paese. Le missioni da lui fondate prosperarono per una quarantina di anni dopo la sua morte, avvenuta a Pechino nel 1328.

Il francescano Odorico da Pordenone (al secolo Odorico Mattiuzzi 1286 – 1331) era partito da Venezia con incarichi analoghi a quelli di Giovanni. Nel corso del suo viaggio molto avventuroso aveva fondato case francescane sul Mar Nero ed un po’ in tutti i luoghi in cui aveva fatto tappa, aveva recuperato le reliquie di alcuni martiri cristiani recentemente uccisi in Persia, aveva soggiornato in India per diversi anni e si era imbarcato toccando Sumatra e forse persino una delle isole che poi sarebbero state riunite dagli Spagnoli nella loro colonia delle Filippine; nel 1323 raggiunse il Guǎngdōng (广东), e risalì attraverso il tracciato di case dell’ordine e chiese fondate dal Montecorvino sino a Pechino. Vi rimase tre anni ai servizi del vecchio vescovo italiano e poi ripartì per tornare a Venezia nel 1329 passando per la Mongolia e forse il Tibet.

Nel 1336 il Khan Temür inviò al Papa Benedetto XII (? – 1342) ad Avignone i genovesi Andrea di Nascio e Andalò di Savignone, da tempo alla sua corte con vari incarichi, con lettere in cui richiedeva altro personale religioso dato che vedeva nel Cristianesimo una forza positiva. Il Papa li rimandò indietro insieme ad una cinquantina di religiosi capitanati da Giovanni de’Marignolli, un francescano fiorentino che aveva insegnato teologia all’Università di Bologna. Recuperati i messi del Khan a Napoli, i prensuli giunsero a Pechino nel 1342 dopo un lungo viaggio per terra che aveva toccato anche il Khanato del Volga. Marignolli viaggiò anche all’interno del Paese per poi ripartirne nel 1347. Toccò le coste dell’India ove visitò alcune missioni cattoliche insediate in diverse regioni, passò per Java e Ceylon, ove rischiò il naufragio, venne fatto prigioniero e fu derubato dei doni del Gran Khan da un principe mussulmano. Riuscì comunque a tornare ad Avignone, via Ormuz, nel 1353 per consegnare la lettera di Temur a Papa Innocenzo VI (1295 – 1362). Continuò poi a viaggiare e ricoprì importanti incarichi anche in giro per l’Europa.

17 Un pio avventuriero dal Marocco

Nel 1345 giunse via mare a Quánzhōu l’esploratore berbero Ibn Baṭūṭah (ابن بطوطة, e 1304 – 1368) forse il viaggiatore che percorse più chilometri di tutti i tempi nei modi più vari. Nel corso dei suoi leggendari viaggi per luoghi santi all’Islàm e per Paesi mussulmani si concesse anche deviazioni di carattere geografico od antropologico e fu incaricato di missioni diplomatiche. In questo caso portava ambascerie dall’India. Già molti viaggiatori erano partiti dai Paesi del Vicino Oriente per raggiungere la Cina, ma Battuta è quello cui dobbiamo le più dettagliate informazioni dopo quelle di Marco Polo.

La Cina è da lui descritta come un Paese ricchissimo e civilissimo, che conferma e talora supera le meravigliate descrizioni di Marco Polo; nota come i musulmani abbiano in tutte le città quartieri riservati e moschee e possano celebrare il venerdì e le altre ricorrenze; abbiano autorità religiose e persino giuridiche proprie. Loda la perfezione delle arti figurative e delle produzioni artigianali, l’efficienza del sistema della carta moneta e della tenuta di registri di carico delle navi nei porti e delle carovane nelle stazioni di posta. Parla di alcune istituzioni assistenziali gestite da religiosi (non mussulmani) a favore di ciechi, invalidi, anziani diseredati, orfani e vedove. Riferisce anche della notevole presenza di persone provenienti da diversi Paesi mussulmani (Siria, Egitto, Marocco) impiegati in ruoli di alto livello nelle comunità mussulmane delle diverse città cinesi. La Cina gli appare meravigliosa ma lo irrita vederla “sotto la ferula degli infedeli”, rei di cose per lui molto riprovevoli.

D’altra parte racconta di essere stato trattato piuttosto bene, oltre che da correligionari piuttosto ben posizionati, anche da questi “infedeli”, dato che il Khan stesso saputo del suo arrivo nel Paese lo aveva invitato a Pechino provvedendolo di ogni cosa ed avvisando i governatori delle regioni da lui attraversate di fare gli onori di casa nel migliore dei modi.

A quanto racconta l’incontro col Khan Temur non ci fu perché questi era impegnato a domare una grande rivolta. Il periodo era in effetti instabile e più tardi Temur fu costretto all’esilio a Karakorum dalla grande ribellione di alcuni feudatari che pose fine alla dinastia Yuán. Il racconto di Battuta anticipa di una quarantina d’anni questo epilogo parlando anche della morte del sovrano e dei suoi fedeli (con qualche particolare raccapricciante delle cerimonie funebri che prevedrebbero sacrifici umani ed equini), ma è probabile che il viaggiatore abbia equivocato sulla gravità di qualche sommossa. In ogni caso il precipitare degli eventi lo costrinse alla fuga verso sud e poi a riprendere i suoi viaggi nel 1346.

Alcuni dei termini in uso nelle sue descrizioni della Cina, scritte sotto dettatura da un poeta arabo andaluso, sono persiani e persiana è una canzone che in suo onore viene cantata dai musici di un importante dignitario; ciò può significare che i contatti con l’Ilkhanato di Persia e lo scambio di maestranze e quadri dirigenti fosse ancora fiorente anche nelle ultime fasi della dinastia Yuán.


V Sotto i Míng

18 Chiusura ed apertura

Dopo una quarantina d’anni di crisi, disordini, e rivolte, nel 1368 la dinastia Yuán venne rovesciata ed i Mongoli furono ricacciati in Mongolia. La dinastia Míng instaurò un nuovo tipo di organizzazione statale, ereditando solo in parte le istituzioni fondate da circa un secolo e cercando piuttosto di recuperarne alcune dei periodi precedenti. In nome di una sorta di autenticità cinese legata al Confucianesimo i nuovi detentori del potere decisero di cacciare alcune delle religioni che si erano maggiormente compromesse coi poteri appena destituiti. Il Cristianesimo di tutte le confessioni, il Manicheismo, e certe forme di Buddismo divennero illegali, mentre l’Islàm, diffusissimo anche in ambienti molto altolocati, e l’Ebraismo, che invece era così minoritario da non rappresentare alcuna minaccia, furono tollerati.

Anche i rapporti con gli Stati esteri cambiarono e, mentre alcune spedizioni militari consolidarono i confini del Paese ed annisero qualche nuova regione, inizialmente le delegazioni per e dall’Europa cessarono. La cultura cinese di quest’epoca è venata da una grande diffidenza verso tutto ciò che è straniero, sino a forme di xenofobia e di chiusura. La storia mostra moltissimi esempi dei danni di una simile politica con cui un Paese si priva di forze produttive ed intellettuali e si condanna al ristagno. I Míng dovettero intuirlo e presto presero a dare impulso alle produzioni di beni da esportazione (tra cui porcellane, sete ed oggetti d’artigianato) ed alla ricerca di nuovi mercati. Ai primi del XV secolo venne costruita una grande flotta e furono organizzate 7 imponenti spedizioni marittime nei mari del sud e nell’Oceano Indiano. Alla loro guida l’eunuco mussulmano Zhèng Hé (鄭和 1371–1433).

Catturato assai giovane da una spedizione militare nello Yúnnán (云南), era stato portato a Pechino, castrato e inserito nel personale di servizio di un principino che poi divenne imperatore con un colpo di mano. La grande amicizia con questi e le sue grandi capacità personali lo avevano portato a ricoprire incarichi molto importanti, così come diversi altri eunuchi citati dalle cronache.

Al suo comando delegazioni cinesi instaurarono rapporti commerciali con molti Paesi asiatici, giungendo ad est forse addirittura sino al Borneo ed alle Filippine, ad ovest sino alle coste orientali dell’Africa. L’influenza del grande Paese asiatico si estese in tutti i mari su cui si affacciava ed anche nell’Oceano Indiano. Nel 1411 la grande flotta guidata da Zhèng Hé occupò persino il Regno di Kotte (කෝට්ටේ රාජධානිය) nell’isola di Ceylon, ufficialmente per prendere una reliquia del Buddha che vi si trovava, più probabilmente per eliminare alcune attività di pirateria che vi facevano base. Per breve tempo parte dell’isola fu sotto il controllo cinese.

D’altro canto l’influenza cinese si era rafforzata anche in Asia Centrale garantendo le possibilità di traffici via terra. Spedizioni, commerci e relazioni diplomatiche erano promosse da una classe di mercanti e di religiosi non confuciani, in conflitto per l’egemonia con la classe dei nuovi burocrati di cultura confuciana preoccupati, al contrario, di consolidare una presunta autenticità nazionale mantenendo le difensive. In alcuni periodi fu quest’ultima a prevalere e le spedizioni, costose ed impegnative, vennero sospese alla morte del loro avventuroso comandante. La Cina, però, aveva nuovamente raggiunto un ruolo di potenza internazionale ridimensionando i Paesi dell’area indiana ed un blocco di sultanati mussulmani dell’Asia sud-orientale.

I Míng dedicarono moltissimo agli studi ed alle scienze in diversi campi, inaugurando anche un’attenzione per le cose antiche e per la storia. Il loro periodo fu un’epoca di splendori e di cose grandi, basti pensare che il grosso dei monumenti che i turisti possono ammirare in Cina nel nostro XXI secolo fu costruito o riscoperto e valorizzato proprio allora. Mentre l’Europa si preparava all’Epoca delle scoperte e all’Umanesimo la Cina dei Míng vi era già da poco immersa, anche se poi, senza la spinta propulsiva del mercantilismo e del capitalismo nascente, non si gettò nell’imperialismo globale come i rinascenti Paesi occidentali e preferì consolidare forme sempre più raffinate di sfruttamento delle risorse interne. Sulle leggendarie navigazioni cinesi dei primi del XV secolo si è naturalmente favoleggiato molto ma certamente, oltre ai risultati strategici e commerciali, esse generarono moltissime conoscenze geografiche ed antropologiche. Anche queste erano uno degli interessi delle classi colte cinesi di allora. Non è improbabile che Zheng He abbia incontrato nei suoi viaggi il veneziano Niccolò de’ Conti (1395 – 1469) e che i due abbiano scambiato notizie sui tantissimi Paesi visitati. Quel che è certo è che le descrizioni rese sui Paesi e sulle genti dell’Asia meridionale dagli ufficiali del primo per i funzionari imperiali e dal secondo quando un Papa lo costrinse a fare penitenza per l’apostasia facendo relazioni dettagliate hanno moltissimi punti in comune. Entrambi fornirono dati ai cartografi. Quelle carte furono poi uno degli strumenti fondamentali della penetrazione europea in Asia.

19 Mercantilisti portoghesi fondano due perle

All’inizio del XVI secolo tutte le migliori forze d’Europa erano mobilitate a progettare ed in parte realizzare viaggi, scoperte, esplorazioni, colonizzazioni, con timide ricerche di giustificazioni etiche e religiose. Era cominciata quell’era di saccheggio, invasione e riduzione in schiavitù su scala mondiale che avrebbe permesso l’accumulazione primitiva di capitali, dalle mani dei colonizzatori a quelle dei banchieri, e l’instaurazione del primo capitalismo. L’aggressione europea al resto del mondo inaugurò forme nuove di sfruttamento.

Con l’aiuto di nuove tecnologie di navigazione e grandi conoscenze di geografia ed astronomia i Portoghesi si lanciarono alla conquista di tutti i nuovi mercati che poterono raggiungere, fondando basi di appoggio e intrecciando relazioni con molti Paesi asiatici. Rivaleggiando con gli Olandesi e gli Spagnoli avevano iniziato ad espandere la loro influenza sull’area estremo-orientale, dove avevano incontrato la resistenza di alcuni Paesi vassalli dei Míng e dei mercanti, soprattutto mussulmani, che vi avevano sino ad allora fatto grandi profitti.

L’impero che riuscirono a fondare nel corso di un paio di secoli era costituito essenzialmente da piccole basi commerciali utili per il commercio delle spezie, con la cospicua eccezione del Brasile, del Mozambico e di altri territori africani dove vennero impiantate strutture dedicate al traffico degli schiavi, all’estrazione di minerali preziosi ed in seguito alla coltivazione intensiva della canna da zucchero e del cotone. Il carattere schiavile della dominazione portoghese si accentuò alla fine del XVI secolo e fu una delle caratteristiche più marcate di quello che si può definire il primo e più duraturo impero globale della storia, con strascichi addirittura sino alla fine del XX secolo. All’epoca dell’espansione in India e nella penisola indocinese l’interesse era quello dell’instaurazione del monopolio mondiale del commercio delle spezie e dell’inserimento di propri agenti nei commerci tra popolazioni locali.

Nel 1513 l’esploratore Jorge Álvares (? – 1521) giunse in un’isola nell’estuario del Fiume delle Perle (珠江 Zhū Jiāng) e vi piantò una colonna commemorativa. Tornato in altri possedimenti coloniali asiatici già consolidati riportò buone notizie sulle possibilità di impiantare commerci in quei paraggi. Un incarico ufficiale di esplorazione e di ricerca di contatti venne allora affidato a Rafael Perestello, un parente di Cristoforo Colombo (1541 – 1506) che serviva la corona portoghese, il quale approdò nel 1516 nel Guǎngdōng (广东), una grande regione del sud della Cina sulla riva occidentale di quello stesso estuario mentre su quella orientale l’anno seguente l’Álvares prese parte all’installazione di una base presso la città di Túnmén (屯门, per i Portoghesi Tãmão).

Dal primo di questi due centri si sviluppò la città di Macau (澳門 Àomén); dall’altro una delle zone dell’odierna Hong Kong (香港 Xiānggǎng). Per capire l’importanza storica, commerciale e culturale di queste due città nella storia cinese e mondiale si pensi che esse sono rimaste colonie di Paesi europei sino agli ultimi anni del XX secolo e che hanno mantenuto una certa autonomia amministrativa ed economica anche una volta acquisite dalla Repubblica Popolare Cinese (中华人民共和国 Zhōnghuá Rénmín Gònghéguó), di cui sono le sole due Regioni Amministrative Speciali. La loro storia fu molto complessa e spesso agitata da scontri armati. Gli insediamenti cominciarono con piccole richieste di ormeggio, poi sbarchi per ristorare gli equipaggi delle navi, poi acquisizione di fondaci e magazzini, poi diritti su parti del territorio, e via così. Nelle città cinesi si potevano trovare quartieri stranieri o gestiti da comunità organizzate con gerarchie proprie, come quelle mussulmane descritte da Ibn Baṭūṭah, quindi la speranza dei Portoghesi di avere insediamenti stabili poteva sembrare ragionevole.

Nel 1515 una missione diplomatica ufficiale venne inviata dal governatore portoghese di Malacca Afonso de Albuquerque (1453 – 1515) al comando di Fernão Pires de Andrade (? – 1523), esploratore, farmacista e uomo d’affari, con l’obiettivo di instaurare rapporti commerciali. Inizialmente ammessi nel Paese con grande ospitalità, sulla via di Pechino la delegazione non dovette farsi apprezzare e fu ricacciata sulla via del ritorno lasciando nei Cinesi una pessima impressione. Si era infatti scoperto che un fratello del comandante era coinvolto in un traffico di bambini schiavi che sarebbero dovuti partire per il Portogallo. Inoltre altri portoghesi avevano commesso vari tipi di violenze.

Si stava anche sviluppando una sorta di conflitto di propaganda, parallelo a quello commerciale, per cui fonti probabilmente legate ai mercanti mussulmani ed alle potenze regionali estromesse dagli affari dall’espansione portoghese mettevano in giro voci sull’arroganza degli Europei (che poi talora alcuni esempi confermavano) ed addirittura su improbabili loro abitudini cannibaliche. Dipinti come rapitori di bambini e stupratori seriali, sporchi e portatori di malattie, questi barbari venuti da lontano provocavano disgusto e paura. Circolarono leggende sulle malefatte dei “Franchi” in Asia, ricalcate sulle versioni arabe del racconto delle Crociate diffuse anche in Persia ed in India.

Anche i Portoghesi inventarono caratteristiche negative dei Cinesi o ne interpretarono male alcune usanze creando stereotipi che in certi casi sono giunti sino alla nostra epoca ed hanno colorato certa letteratura d’appendice e certo cinema: le “torture cinesi” (che non dovevano essere nella realtà da meno di quelle dell’Inquisizione, ma che certo non potevano essere così frequenti), il carattere subdolo, la scarsa igiene. Anche l’accusa di cannibalismo rimbalzò diverse volte tra le due parti e fu creduta a tal punto che ad esempio a difendere le posizioni portoghesi in dure battaglie contro le navi da guerra cinesi furono molti schiavi africani in Africa che vi lavoravano: meglio una vita in schiavitù che essere mangiati vivi.

Ecco un’altra grande differenza tra i due imperi perché nella Cina dei Míng la schiavitù veniva praticata in modo residuale, era regolata da norme che la scoraggiavano e riguardava più che altro i prigionieri di guerra, senza le proporzioni industriali che invece il fenomeno stava assumendo nell’economia portoghese.

Altri tentativi di stabilire contatti diplomatici vennero poi fatti in seguito. Tomé Pires (1465 – 1540), altro farmacista ed uomo d’affari, venne inviato dall’Imperatore Manuel I (1495 – 1521) al suo omologo Zhèngdé (正德 1491 – 1521). Inizialmente sembrò che si potessero riannodare i rapporti, ma poi alcuni mercanti portoghesi si misero a depredare villaggi ed a rapire fanciulle; per ritorsione alcune navi portoghesi furono colate a picco ed i loro equipaggi catturati ed in parte uccisi. A Túnmén (屯门) era anche stato costruito del tutto illegittimamente un piccolo forte che i Cinesi distrussero nel 1521. Alla morte dei due imperatori, avvenuta lo stesso anno, la delegazione fu rimandata indietro. I Portoghesi vennero banditi e le loro proprietà confiscate.

Molti altri tentativi di contatto successivi vennero rifiutati ed anzi da parte cinese si prese a rivendicare la restaurazione del Sultanato di Malacca (كسلطانن ملايو ملاك), un tempo stato mussulmano vassallo dei Míng rovesciato dai Portoghesi nel 1511: nessuna amicizia poteva esserci con chi aveva distrutto gli amici della Cina, che tra l’altro le portavano vantaggi economici. Continuando nella guerra di propaganda, i Portoghesi rispondevano che avevano invaso quel regno proprio perché il suo re agiva con crudeltà contro i mercanti cinesi, cosa falsa. Tutti i tentativi di penetrazione navale non autorizzati vennero respinti ed i Portoghesi catturati vennero uccisi in pubbliche esecuzioni, i cui atroci dettagli, questa volta reali, vennero divulgati ad infondere il terrore.

Nel 1523 le navi cinesi sconfissero una consistente flotta portoghese cannoneggiandola con inedita precisione presso al largo di Qiàncǎo wān (茜草灣), sempre nei paraggi.

Ma d’altra parte, all’alternarsi presso la corte imperiale della fortuna delle due fazioni, una favorevole ai contatti ed ai commerci, l’altra più isolazionista, legata alla nobiltà agraria, cambiava l’atteggiamento verso gli stranieri e la politica sulle zone costiere. Nel 1537 venne concessa a Macao la fondazione di un insediamento portoghese stabile in territorio cinese con un proprio governatore e diverse strutture dedite al commercio. In cambio navi da guerra portoghesi collaboravano alla lotta ad una fantomatica pirateria ed i mercanti pagavano un cospicuo affitto. Quest’ultima condizione perdurò sino al secolo XIX.

Un tentativo di incursione olandese a Macao venne respinto nel 1622, mentre anche gli Inglesi cominciavano ad affacciarsi nella regione. All’inizio del XVIII secolo queste due potenze si sarebbero sostituite ai Portoghesi quasi in tutto il mondo, ma non nella prima delle “perle” del Mare Cinese Meridionale, in cui alla fine del XIX secolo sarà costruito il primo faro della Cina.

Dopo alterne vicende, nel 1661, riprendendo la propaganda xenofoba e sfruttando il terrore infuso nella popolazione dagli scontri del passato recente, l’Imperatore promulgò un bando che vietava ogni attività di navigazione civile, proclamava zona militare una fascia di diversi chilometri dalla costa ed imponeva a tutta la popolazione rivierasca un drammatico trasferimento verso l’interno. Gli effetti sociali furono distruttivi: un ceto di pescatori piccoli e grandi che aveva una certa tradizione fu completamente rovinato, con le navi bruciate dai soldati, ed altrettanto avvenne ai mercanti; le città costiere si svuotarono e divennero acquartieramenti militari, mentre la popolazione formava un’onda di profughi dal difficile inserimento nell’economia e nella società dei centri più interni; i territori abbandonati, specialmente la zona dell’odierna Hong Kong, furono rapidamente vittime di un grave degrado; la militarizzazione dei mari non produsse, inoltre, l’effetto di salvaguardia sperato. Dopo 8 anni il bando venne revocato e le coste tornarono a riempirsi di gente.

Ripresero anche i negoziati con gli ostinati naviganti europei. La Cina aveva bisogno di argento che non poteva trovare che attraverso il commercio con alcuni Paesi come il Giappone in cui i Portoghesi avevano conquistato notevoli posizioni. Furono proprio loro a scambiarlo con le porcellane e le sete cinesi, dando anche uno sbocco commerciale alle produzioni nazionali.

Il commercio triangolare portoghese toccò anche altri Paesi della penisola indocinese ad alcuni centri indiani, tra cui Goa. In seguito si sarebbe esteso anche al Pacifico sino a toccare le coste del Messico passando per la Filippine. Il Portogallo ne ricavava spezie in quantità maggiore di ogni altra potenza europea e notevoli altri prodotti e guadagni, tutti gli altri Paesi trovavano sbocchi per le loro produzioni e rifornimenti di materiali e beni necessari.

Lo sviluppo della zona di Hong Kong seguì un simile processo di fondazione poco dopo, per passare durante le varie ondate coloniali, in mani inglesi. La East India Company aveva cominciato a commerciarvi nel 1699 con un rapidissimo sviluppo degli scambi che l’avrebbe resa alla fine del XVIII secolo il maggior porto della Cina. Tra i generi importati anche l’oppio indiano, che sarebbe stato all’origine di un vero disastro per il Paese.

20 Comprendere per comunicare: Gesuiti

Il domenicano portoghese Gaspar da Cruz (1520 – 1570) giunse nel 1556 a Làngbái’ào (浪白滘, in portoghese Lampacau), un’isola al largo del Guǎngdōng in cui fervevano i contatti ed i commerci, al ritorno da una missione infruttuosa di evangelizzazione e di studio in altri Paesi. Là riuscì ad ottenere dalle autorità cinesi il permesso di sbarcare nel Paese per conoscerlo. Dopo un mese passato in viaggi e preghiere ritornò nei domini coloniali portoghesi e si dedicò ad altri viaggi. Le descrizioni che rese furono un documento importante per la futura penetrazione europea in Cina, benché diffuse prevalentemente tra lettori di lingua portoghese.

Maggior fortuna internazionale ebbe l’opera in spagnolo di Bernardino de Escalante (1537 – 1605), soldato e prete spagnolo che si occupò di ricerche geografiche ed antropologiche. Grazie ai due autori gli europei più colti e quelli interessati ad avvicinarsi al prospero commercio con la Cina poterono conoscere alcuni caratteri della scrittura cinese, alcune caratteristiche della lingua sillabica e la grande comprensibilità della scrittura in uno spazio molto ampio anche da parte di popolazioni che parlavano lingue diverse. Lo studio della lingua cinese ebbe grandissimo impulso, nel corso dei secoli, dai religiosi preoccupati di far comprendere il messaggio evangelico.

L’esempio del Da Cruz rese anche chiare due cose: che i Cinesi avrebbero reagito ad ogni tentativo di aggressione violenta ma sarebbero stati disponibili ad interagire con chi mostrasse un atteggiamento di rispetto ed interesse; che per poter operare a qualunque titolo in Cina occorreva conoscerne bene la società, studiandola e comprendendone meccanismi e gerarchie. Molti comandanti portoghesi, benché spesso oltre che uomini d’azione anche uomini di scienza (erboristi e farmacisti, comunque esperti di spezie), non lo avevano compreso e avevano compromesso l’esito delle loro missioni.

Si noti che le relazioni commerciali tra i due popoli erano rese possibili dall’esistenza di interpreti soprattutto cinesi. Contrastando lo stereotipo che vuole il cinese privo di capacità linguistiche, erano i Cinesi che erano riusciti ad imparare il portoghese ed anche altre lingue. Non c’erano quasi portoghesi che conoscessero il cinese, tanto che i primi elementi della lingua cinese vennero diffusi in Europa proprio dal Da Cruz.

Dal punto di vista culturale si possono identificare nella Macao del XVI secolo due culture, una laica legata a commerci e ai primi procedimenti di raffinazione di spezie, tutta tecnica e pratica, ed un’altra di ambiente clericale più teorica ed erudita. Tra le due vennero nel tempo a crearsi connessioni ed interessi comuni, come ad esempio la formazione di interpreti, in prevalenza cinesi che abitavano nel dinamicissimo porto internazionale, la definizione di regole e parametri di traduzione accettabili, anche nel caso di testi di origine esterna all’area già in traduzione cinese o adattamento, e l’accumulo graduale di conoscenze botaniche e tecnologiche. Pur con qualche tentativo di trattenere segreti, un po’ come fanno le compagnie industriali di oggi, si scambiavano molte informazioni di quel tipo in portoghese e in cinese. La produzione di testi manoscritti in portoghese ebbe grande successo nel corso di questo secolo e del successivo, tanto che essi presero a diffondersi nella regione del delta del Fiume delle Perle. Gli autori li firmavano spesso mettenedo il loro nome solo in caratteri cinesi perché essi non avevano corrispondenti in portoghese. Qualcuno invece, se veniva battezzato cristianamente, poteva far uso di un nome europeo.

Nel 1576, quando ancora la presenza portoghese nella regione era tutt’altro che consolidata, venne istituita la Diocesi Cattolica di Macao. La Chiesa Cattolica aveva sia in Portogallo, sia in tutte le colonie un ruolo fondamentale nel controllo sociale, sempre al fianco dei Re e delle varie compagnie ed agenzie che questi incaricavano di gestire esplorazioni, invasioni, trattative e commerci. Quando João III (1502 – 1557) aveva chiesto a più riprese al Papa di inviargli missionari per diffondere la fede e mantenere l’ordine nei nuovi possedimenti era stato consigliato di rivolgersi alla Compagnia di Gesù, un ordine fondato nel 1540 da Ignacio de Loyola (1491 – 1556, poi fatto santo) che riuniva giovani colti e motivati e che si stava rendendo famoso in quegli anni per l’obbedienza al Papa, la vocazione all’educazione ed al dialogo tra comunità diverse, la capacità di interloquire con i gruppi dirigenti delle diverse società con cui entravano in contatto e la disponibilità ad adattarsi ai contesti culturali e linguistici ai fini della predicazione.

Ecco che i Gesuiti compaiono a fianco di Domenicani e Francescani nei rapporti tra mondo cattolico e resto del pianeta. Presto li rimpiazzeranno riuscendo a penetrare in India, in Giappone ed in moltissimi altri Paesi, spesso vestendosi come religiosi o nobili locali, sempre parlando le lingue della popolazione e studiandone con attenzione le società. Questa attenzione alle necessità ed alle aspirazioni delle genti lontane detta Modo soave sarà la chiave del loro successo e permetterà loro di entrare anche nella Cina dei Míng. Questo ingresso fu, come si può immaginare, lento e sofferto e fu relativamente tardo rispetto a quanto accadde in altri Paesi limitrofi.

21 I Gesuiti in Giappone

A sbarcare in Giappone, nel 1549, dopo lunghissimi viaggi in molti dei dominii portoghesi in Africa ed Asia, fu Francisco de Javier (1506 – 1552, poi fatto santo), uno dei fondatori della Compagnia, che aveva anche inaugurato l’uso di imparare le lingue diffuse nei luoghi di predicazione, tanto da poterne parlare una decina. Era rimasto nel paese due anni guadagnandosi il rispetto di alcuni dei signori che allora si dividevano il potere verso i convertiti cristiani della una piccola comunità che era riuscito a fondare. Si era poi diretto di nuovo nelle colonie portoghesi indiane per preparare una spedizione in Cina. Non poté portarla a termine perché morì, relativamente giovane, nel 1552 su di un’isola nel Mar Cinese Meridionale, a dieci chilometri dal continente, mentre aspettava un contrabbandiere cinese che l’avrebbe introdotto clandestinamente nel Paese. Al suo capezzale un prete balbuziente, un altro prete di origini cinesi, tale Antonio de Santa Fe di cui non si sa praticamente nulla, qualche altro religioso ed un indiano da poco convertito. Nessuno di loro, senza più la sua guida illuminata, ebbe il coraggio di sfidare la pena di morte e le torture (non si sa se leggendarie o reali) che spettavano agli europei che si fossero avventurati in Cina. I contatti commerciali si svolgevano allora di contrabbando.

Dopo tale seminagione, la fioritura dei Gesuiti in Giappone nel corso della seconda metà del XVI secolo fu lussureggiante, tanto che la comunità cattolica arrivò a contare 150.000 persone, quasi l’1% dell’intera popolazione. Alcuni personaggi molto importanti si convertirono al Cristianesimo e venne affidata proprio ai religiosi l’amministrazione di un territorio. Erano loro a gestire alcune attività economiche molto importanti come ad esempio gli scambi commerciali con gli Europei. Il controllo del flusso dell’argento giapponese comportava anche alcuni spazi di autonomia persino rispetto alle autorità militari e civili portoghesi.

Uno dei principali autori di questo successo fu Alessandro Valignano (范禮安 Fàn Lǐ’, 1539 – 1606), responsabile generale della Compagnia per le missioni in Asia estremo-orientale, che aveva viaggiato a più riprese in Giappone soggiornandovi per molto tempo e stringendo rapporti con le principali autorità. Nutrendo un’altissima opinione delle culture del Giappone e della Cina, aveva predicato ai suoi religiosi il rispetto dei costumi locali e l’importanza delle lingue dei Popoli presso cui svolgere la missione evangelica. Propose anche di introdurre nella liturgia cristiana alcuni elementi dei riti giapponesi ed ammettere nel Cristianesimo anche la venerazione per gli antenati, cosa che gli attirò l’ostilità di gran parte delle gerarchie cattoliche e degli altri ordini più impegnati nelle missioni, Domenicani e Francescani in testa. La Questione dei riti orientali, detti poi Riti Cinesi, sarà per lungo tempo un tema di contrasti all’interno della Chiesa; in essa si fronteggeranno le tendenze più sincretiche e più aperte al dialogo con quelle più retrive, fautrici di un’autenticità del messaggio cristiano che in realtà vi unirà molti elementi delle prassi liturgiche e politiche rinascimentali. Quest’ultima tendenza trionferà ufficialmente nel 1742 con divieti espliciti, ma simili contrasti si ripresenteranno sino al XX secolo nella storia della Chiesa, in ultimo con la Svolta antropologica del Concilio

Vaticano II.

Verso la fine del XVI secolo, però, si ebbe una ridefinizione dei poteri all’interno della società giapponese che portò alcuni dei principi più potenti a tentare l’unificazione politica. La presenza di una così fiorente comunità cristiana con un ruolo a tal punto strategico apparve come una pericolosa ingerenza straniera.

Come racconta nelle sue lettere il gesuita bolognese Francesco Pasio (1554 – 1612), la situazione mutò quando lo Toyotomi Hideyoshi (1536 – 1598) trasformò il Paese in un impero centralizzato, scontrandosi con i poteri locali. Una così fiorente comunità cristiana che apriva le porte agli stranieri sul territorio giapponese e che per di più riforniva di argento l’impero più potente dell’area non poteva non essere vista con sospetto. Venne emanato un primo bando contro i missionari nel 1587 (Pasio era giunto in Giappone 4 anni prima), che però non ebbe conseguenze immediate molto gravi perché poi venne in testa allo stesso Toyotomi di sfruttare le navi portoghesi per un’avventura imperialista e per avere buoni rapporti con i Portoghesi era necessario essere cordiali con i Gesuiti. Avrebbe voluto conquistare la Corea (한국 Hangug) e poi la Cina, di cui la Corea era alleata e tributaria, ed in seguito spazzare via anche i mercanti Portoghesi dalla zona. Insomma il conto con Portoghesi e cattolicesimo era solo rimandato, sospettava Pasio.

L’invasione avvenne nel 1592, ma senza l’aiuto dei Portoghesi; la guerra devastò la Corea e una parte della Cina e terminò dopo 6 anni, quando le truppe cinesi riuscirono a liberare il loro stato vassallo. Il costo in vite umane fu enorme e gravi furono anche le conseguenze per la stabilità politica della zona.

Poco prima e poco dopo il Valignano aveva fatto due viaggi in Giappone (1590 e 1598, il suo terzo e quarto).

Dai suoi carteggi, in contrasto con la versione del Pasio, si potrebbe dedurre che anche i Gesuiti, a dispetto della soavità di modo, avevano pensato di far invadere le regioni costiere cinesi dalle valorose armate giapponesi allenate da anni di guerre civili, di cui i religiosi pensavano di poter condizionare i comandanti. La questione del ruolo dei Gesuiti in questa sanguinosa vicenda è aperta.

Intanto Toyotomi aveva pensato di indebolire il potere delle Compagnia di Gesù permettendo anche ai Francescani di predicare (1593). Nel 1596 un vescovo portoghese visitò il Giappone, incontrando Toyotomi e stringendo rapporti formalmente amichevoli. Nella speranza di riportare la missione ed i Gesuiti al livello di potere precedente all’avvento dell’Impero, il prelato rimandò i Francescani nelle Filippine in cui operavano da tempo. Toyotomi comprese la manovra e l’anno successivo si mise a perseguitare i Cristiani in modo sistematico: alcuni fedeli recalcitranti subirono la crocefissione,mentre gli altri fuggirono poco dopo.

Il Valignano, fallita la missione giapponese e accusato da parte del clero di voler introdurre culti idolatrici nel Cristianesimo, morì a Macao nel 1606. Il Pasio, dopo una trentina d’anni in terra giapponese, si dedicò ad altri incarichi in Paesi asiatici e morì a Macao nel 1612. Aveva collaborato anche alla fondazione della missione in Cina.

21 Finalmente di nuovo in Cina

Le figure di Gesuiti, missionari e studiosi che hanno avuto un ruolo importante nelle vicende dei rapporti tra Europa e Cina in questa fase sono tante e per motivi di spazio è qui dolorosamente necessario trascurarne alcune. È invece necessario ricordare il contributo del gesuita Michele Ruggeri (羅明堅 Luó Míngjiān, 1543 – 1607) che il Valignano aveva incaricato di studiare la lingua cinese e che scrisse uno dei primi dizionari Cinese-Portoghese. Padre della sinologia come venne intesa per lungo tempo, era giunto a Macao nel 1579 attraverso le missioni in India, dove aveva dato prova di grandissime capacità linguistiche. Anche in virtù di esse fu chiamato all’evangelizzazione della Cina, dove in poco più di 6 mesi fu in grado di scrivere e parlare in modo soddisfacente in lingua locale e fondò, con l’aiuto di cattolici sinofoni recentemente convertiti, una scuola di Cinese per stranieri. Nel 1584 pubblicò, stampandolo in xilografia, un catechismo in cinese, 天主實錄 (Tiānzhǔ shílù), il primo libro in quella lingua scritto da un europeo. Il termine 天主 significa letteralmente Signore (zhǔ) del cielo (tiān) e venne in seguito accettato per tradurre in Cinese il concetto cristiano di Dio.

Va detto che anche all’interno della Compagnia di Gesù si era diffuso un certo scetticismo sulla possibilità di entrare in Cina ed occorrevano sforzi notevoli al Valignano per convincere i confratelli che non ci si sarebbe fermati a Macao. Insieme al Pasio prima dell’avventura giapponese nelle strutture della Compagnia a Macao, Ruggeri percepiva di vivere una realtà cinese troppo mediata da filtri culturali portoghesi: viveva sostanzialmente tra Portoghesi, vestito ed accostumato alla portoghese. Nel 1580 era riuscito però a vedere la “vera” Cina infiltrandosi in un gruppetto di mercanti che erano stati autorizzati a partecipare ad una fiera che si teneva periodicamente a Guǎngzhōu (廣州, che in Europa è oggi detta Canton dal portoghese Cantão). Riuscì poi, nel 1582 a visitare Zhàoqìng (肇庆), capoluogo del Guǎngdōng, e a farsi ricevere dal Governatore. Si fece benvolere regalandogli alcuni oggetti per lui esotici ed interessanti, quali un paio di occhiali, un orologio meccanico ed alcune pezze di velluto. Il Governatore gli rilasciò un lasciapassare che gli consentiva di risiedere in quella città con un confratello. Vi tornò col Pasio. I due presero a studiare i costumi e la lingua locali, a predicare e a farsi ben volere dal ceto colto della città. Ottennero anche il permesso di farvi risiedere un terzo confratello. Ruggeri scrisse al Valignano di inviare Matteo Ricci (利瑪竇 Lì Mǎdòu; 1552 – 1610), con cui aveva viaggiato anni prima alla volta dell’Asia. Il maceratese giunse col mandato di sovrintendere alla missione in Cina.

Di lì a poco, però, a causa di un avvicendamento ai vertici del governo regionale, la posizione dei tre religiosi cambiò e nel 1583 essi dovettero tornare a Macao. Convintosi che non c’era niente da fare in Cina, il Pasio chiese ed ottenne di partire per il Giappone, ove compì quel che si è scritto nel capitolo seguente. Pochi mesi dopo, contro ogni aspettativa il nuoco Governatore li invitava a tornare e conferiva loro un permesso di residenza stabile. Ricci e Ruggeri poterono allora viaggiare per la regione sempre in accordo con le autorità con cui avevano saputo intessere relazioni amichevoli. Esse talora fornivano scorte armate, permessi di residenza e transito o mezzi materiali.

Tradussero quanto poterono in tutti i sensi tra Cinese, Latino, Portoghese ed altre lingue europee. Scrissero anche molto sulla lingua cinese, operando distinzioni interessanti sui diversi dialetti parlati nelle varie regioni ed identificando strutture e pronuncia simili a quelle del mandarino (普通话 pǔtōnghuà) che è oggi la lingua ufficiale della Repubblica Popolare Cinese. Crearono anche un interessante sistema di traslitterazione in caratteri latini delle parole cinesi.

Nel 1588 terminarono la compilazione di un secondo dizionario Cinese-Portoghese, con l’aiuto di padre Sabastião Fernandez (中明人 Zhōng Míngrén), un gesuita cinese che era cresciuto negli ambienti cristiani di Macao dove ormai la Compagnia gestiva alcuni istituti di formazione e che era stato il vero maestro di lingua del Ricci. Per una serie di casualità complesse il dizionario rimase dimenticato in Italia negli archivi del Collegio Romano sino al XX secolo.

In ogni caso il dialogo interculturale cui dettero vita fu veramente notevole. Va detto che erano capitati in una fase di maggiore apertura della società cinese, in cui potevano costituire oggetto di interesse.

In special modo il Ricci aveva fama di matematico, astronomo e cartografo. In effetti aveva seguito anni prima a Roma le lezioni dell’astronomo tedesco Cristoforo Clavio (Christoph Klau 1537 – 1612), membro della commissione istituita da Papa Gregorio XIII (1502 – 1585) per la riforma del calendario avvenuta nel 1582. Non è improbabile che, come fanno ogni tanto gli insegnanti con i problemi interessanti e con gli studenti svegli, il Clavio avesse spiegato qualche cosa al Ricci dei complicati studi di calendarizzazione. Il maceratese aveva poi appreso tutta la geografia al tempo disponibile e le nuove tecniche topografiche e di disegno, utili a realizzare mappe e costruire mappamondi e globi della volta celeste. Geografia, topografia e matematica connessa vivevano allora un ribollire di novità. L’astronomia era, inoltre una delle scienze più importanti in quell’epoca di navigazioni intercontinentali, in grandissimo sviluppo grazie allo spirito del Rinascimento.

Tutte le scienze beneficiavano del nuovo atteggiamento degli studiosi, che osservavano la natura e cominciavano ad anteporla alle teorie degli antichi. Riformavano gli antichi strumenti di osservazione e misurazione e ne inventavano di nuovi. Ricci apprese l’uso dell’astrolabio e del sestante e studiò diverse tecniche per realizzare orologi meccanici e solari. Apprese anche delle novità introdotte da Galileo. L’atteggiamento dei Gesuiti nei confronti delle scoperte e dei metodi del grande e controverso pisano fu sempre di ammirazione, anche se talora tacita per non incorrere nelle ire delle autorità pontificie.

La competenza astronomica del Ricci giunse all’orecchio degli alti dirigenti della società cinese che, come si è detto, avevano grandissimi interessi in astronomia e nella calendarizzazione. Tali studi erano connessi sia con le necessità organizzative e gestionali delle strutture produttive agricole, sia con significati esoterici ed astrologici di primaria importanza.

Nel 1584 Ricci compilò con le tecniche di disegno geografico e le conoscenze europee una mappa del mondo conosciuto in cui erano riportati in cinese i nomi delle diverse località e oggetti di interesse, la quale fu xilografata e poi riprodotta anche a mano da altri in alcune copie su carta di riso, delle quali pochissime sono giunte ai giorni nostri. In seguito sarebbe stato proprio un Imperatore a richiedergliene una, la 坤輿萬國全圖 (Kūn yú wànguó quán tú) del 1602.

Contemporanea a tanta attività di studio e traduzioni c’era anche quella di predicazione. I due Gesuiti, coadiuvati inizialmente da pochi collaboratori battezzarono alcune persone e formarono il primo nucleo della comunità cattolica in Cina. Nel 1585 venne completata a Zhàoqìng la costruzione di una chiesetta ed una casa per i religiosi, che costituiscono il primo insediamento cattolico in Cina al di fuori di Macao.

Inizialmente per far capire che erano religiosi si vestivano come i monaci buddisti, rasandosi capelli e barbe. Sempre in linea col modo soave, per farsi comprendere ed accettare dalla popolazione, avevano anche scritto in Cinese i loro nomi, accorciati di alcune sillabe per essere più simili a quelli cinesi e più comprensibili ai sinofoni. La cosa funzionò con le alte gerarchie e con i ceti elevati, ma non con la popolazione. Il Ricci stesso scrive che, pur estasiato dalle meraviglie del grande e pacifico Paese, nella gente avvertiva un timore ed un pregiudizio contro di loro che erano barbari e forse amici di potenziali invasori come Portoghesi e Spagnoli che, come abbiamo visto, avevano dato cattive prove di loro. In qualche caso furono rivolte contro i due religiosi delle accuse probabilmente false (cattura di un ragazzo per venderlo come schiavo, violenza sessuale contro la moglie di un convertito e cospirazione contro lo Stato) e fu necessario un editto delle autorità perché cessassero le scritte e le sassate contro la casetta di tipo europeo che incuriosiva i letterati ed i burocrati. Questi facevano visita ai due religiosi per parlare di temi filosofici e morali e per ricevere in dono meraviglie tecnologiche (prismi che scomponevano la luce, orologi solari, sfere celesti) che il Ricci si era portato o che fabbricava.

Nel 1588 Ruggeri venne richiamato a Macao dal Valignano che gli affidò un’importante missione diplomatica: doveva andare in Spagna presso Filippo II d’Asburgo, Re di Spagna, Portogallo, Algarve, Sicilia, Napoli, Sardegna e tanti altri Paesi in giro per il mondo, e presso il Papa a Roma per convincerli ad inviare una grande delegazione ufficiale della Cristianità in Cina, illustrandone i vantaggi e raccontando anche della difficoltà della missione in quel momento. I Gesuiti speravano che entrando in rapporto diretto con un potentissimo regnante occidentale, l’Imperatore li avrebbe più facilmente ammessi a Pechino. Il Re di Spagna ricevette il gesuita ed accettò di inviare una delegazione ma fu impossibile parlare seriamente del progetto col Papa anche perché in pochissimo tempo ne morirono quattro e l’alto clero era molto occupato. Poi la Spagna fu investita da gravi problemi interni ed internazionali e la cosa venne abbandonata. Ignorato proprio nella Città Santa della sua religione, Ruggeri si ritirò a Salerno dove si dedicò ad alcune opere con cui sperava di poter comunicare agli Europei l’incredibile mondo di cui aveva fatto esperienza. Tra essi traduzioni latine di classici confuciani, poesie in cinese e mappe. Lavorò così sino alla morte, nel 1607.

Intanto in Cina, nel 1589, in seguito ad un altro avvicendamento ai vertici della regione, la casa dei Gesuiti venne requisita e solo dopo una faticosa negoziazione Ricci ed il nuovo confratello, lo spagnolo António de Almeida (1557 – 1591) ottennero il permesso di trasferirsi in un’altra città, anziché essere cacciati. Si stabilirono a Cháozhōu (潮州) dove furono raggiunti da altri Gesuiti europei e da alcuni novizi cinesi di Macao. Anche qui su di un terreno concesso dal Governatore costruirono una residenza ed una cappella, questa volta più simili alle costruzioni cinesi per non suscitare l’ostilità della popolazione, e ripresero le frequentazioni con burocrati ed intellettuali. Tra essi conobbero anche Qú Tàisù (瞿太素, per il Ricci Chiutaisio) che era un uomo di altissimo rango ed aveva interessi scientifici ed alchemici. Questi chiese di accoglierlo come discepolo e Ricci prese a dargli lezioni di matematica all’europea (cioè alla greco-araba integrata con le novità tardomedioevali e rinascimentali), con l’impostazione ipotetico-deduttiva che i Cinesi non conoscevano.

La matematica cinese aveva avuto uno sviluppo diverso legato ad altri principi di base, tra cui l’efficacia dei procedimenti risolutivi, l’aderenza a situazioni concrete e all’applicabilità pratica, e l’armonia tra parti diverse di un tutto o di un ragionamento e la generalizzazione per analogia. Gli interessi di ricerca derivavano da necessità di agrimensura, idraulica, fiscalità, commercio, ingegneria, topografia ed anche astronomia, cioè più o meno quelli che animavano molti scienziati anche nell’Europa del Rinascimento, e spaziavano, conseguentemente, dall’algebra alla geometria, impostate in maniera ben diversa da quella greca, senza disdegnare le tecniche di calcolo e gli algoritmi. Tra i risultati più stupefacenti la risoluzione di sistemi di primo grado anche molto complessi con un metodo analogo a quello scoperto in Europa solo nel XVIII secolo, il Teorema di Pitagora in una formulazione assai particolare e stime raffinatissime di π. I suoi periodi d’oro erano stati, oltre ad una remota antichità il Periodo delle Primavere e degli Autunni ( 春秋时代 Chūnqiū Shídài 771 – 476 p.E.v.), l’era Táng (618 – 907) e l’era Sòng (960 – 1279). Da quest’ultimo periodo la ricerca cinese aveva gradualmente abbandonato la matematica, pur permanendo forti gli interessi sulla calendarizzazione ed sull’astronomia, come si è detto nei capitoli dedicati al XIII secolo.

Il fascino di Euclide conquistò il giovane, che presto fu in grado di tradurre qualche brano degli Elementi e di altre opere che Ricci aveva con sé e propagandò le grandi competenze scientifiche dei missionari presso gli altri intellettuali cinesi. Discepolo e maestro rimasero amici per tutta la vita.

Pur tra altre difficoltà, tra cui la morte per malaria di alcuni missionari e nuove aggressioni da parte della popolazione, la via per una predicazione più massiccia era aperta. Era la via per la capitale e passava per la cultura scientifica e matematica.

Nel 1594 un confratello portò al Ricci l’autorizzazione del Valignano a vestirsi alla maniera dei letterati confuciani, con lunghe vesti di seta dalle larghe maniche, barbe e baffi conciati, onde assumere un’apparenza più gradita alla gente colta. Le umili vesti da bonzi precedentemente indossate avevano infatti costituito un deterrente all’avvicinamento di intellettuali nobili, in quanto i bonzi non erano monaci studiosi e trattare con loro non era ritenuto conveniente per un nobiluomo. La forma era allora molto importante in Cina e per certi versi lo è ancora oggi.

Ricci e Ruggeri avevano discusso di questo problema ed anche di quello collegato e di maggior sostanza dell’atteggiamento da tenere rispetto alle religioni (ma forse sarebbe meglio dire filosofie o modi di pensare) allora maggioritarie in Cina, cioè Confucianesimo e Taoismo. Ricci riteneva di poter meglio spiegare il Vangelo e la morale cristiana attraverso analogie con la moralistica confuciana, Ruggeri vedeva migliori possibilità di convergenze col Taoismo, in particolare per il concetto evangelico di logos (Λόγος quella “parola” con cui si apre il Vangelo di Giovanni, che volendo si può intendere anche come “via”). Si trattava anche di scegliere le parole cinesi da usare nell’esposizione dei capisaldi della dottrina prendendole in questo o quel contesto culturale. Alla fine prevalse la scelta di Ricci, che si rivelò molto appropriata perché più adatta a descrivere una condotta di vita applicabile alla concretezza dell’esistenza individuale.

In quello stesso anno portò a termine una traduzione latina di testi fondamentali del Confucianesimo che studiava da tempo. Il manoscritto di questo lavoro, oggi perduto, fu poi la base di successivi studi sulla filosofia di Confucio (孔夫子 Kǒngfūzǐ 551–479) compiuti a Parigi alla fine del XVII secolo da altri Gesuiti.

La sua fama di uomo saggio, di geniale costruttore di orologi, strumenti e macchine, e di matematico si sparse sino a procurargli visite molto importanti.

L’anno successivo colse l’occasione di accompagnare un altissimo dignitario che si recava a Pechino e che aveva un figlio molto bisognoso di lezioni di matematica e di incoraggiamento perché non aveva passato gli esami di stato. Sperava di poter arrivare alla capitale ma dopo un viaggio avventuroso fu fermato dale autorità a Nánjīng (南京, la Capitale del Sud, più nota come Nanchino) e dovette anzi ripiegare a Nánchāng (南昌), altra splendida città del sud-est, prospera, ordinata e piena di istituzioni culturali, dove si installò.

Nel corso di gran parte della sua vicenda, come già avvenuto sino a qui, Ricci suscitò curiosità e diffidenza, fu accolto e scacciato, ebbe fortuna ed insuccesso. Tra i motivi di tale alternanza l’andamento del conflitto con i Giapponesi in Corea che produceva negli ambienti altolocati impressioni altalenanti di timore o rivalsa. Di tanto in tanto gli stranieri venivano considerati nemici, anche quelli che potevano somigliare a Portoghesi dato che si temeva che proprio questi alla fine avrebbero guadagnato dall’indebolirsi delle potenze locali. Inoltre si era saputo che proprio dei religiosi cristiani si erano sistemati proprio bene in Giappone. Meno male che il Ricci non era così riconoscibile, a prima vista, come gesuita.

Un altro motivo era il conflitto interno alle strutture di potere dell’Impero tra le due fazioni, una tesa all’isolamento ed alla produzione per il consumo locale, molto caratterizzata culturalmente dalla pratica della morale confuciana, l’altra più aperta al commercio ed ai legami internazionali, spesso rappresentata dagli eunuchi, che a corte e nelle diverse diramazioni del potere imperiale avevano un ruolo importante. Le contrapposizioni erano, però, molto più complesse, ad esempio per quel che riguarda i rapporti con i diversi imperatori. Quello con cui i Ricci ebbe in qualche modo a che fare, sempre per interposta persona, Wànlì (萬曆 1563 – 1620) era particolarmente soggetto all’influenza dell’una o dell’altra parte sino a che nella fase finale della sua vita si rinchiuse nella sua reggia lasciando il governo in mano ai ministri per dedicarsi, pare, all’introspezione ed al consumo di droghe.

A Nánchāng Ricci fu ospitato da un nobile e trattato assai bene. Era stato preceduto da lettere di presentazione di altri notabili che lo avevano conosciuto. Conobbe anche alcuni membri della famiglia reale.

Poté poi acquistare una casa vicina a quella del Governatore, che si ingraziò donandogli degli orologi solari. Venne ammesso in diverse cerchie di letterati, anche molto esclusive, e gli furono tributati grandi onori.

Per spiegare ai suoi nuovi amici il mondo da cui veniva scrisse in questo periodo diverse opere in cinese e fabbricò carte, globi terrestri e del cielo, disegnò un atlante in cui descrisse anche la teoria geocentrica del mondo. Oltre alla geografia ed all’astronomia si occupò anche di moralistica, sempre cercando di usare parole tipiche della prosa confuciana, in un trattatello sull’amicizia di una settantina di massime tratte dai maggiori pensatori europei che ebbe grandissimo successo e fu in seguito inserito tra i classici della letteratura cinese. Tradusse in Cinese o meglio adattò alla sensibilità confuciana anche altre opere moralistiche di autori classici greci e latini. Ebbe grande successo anche un suo trattato sulle mnemotecniche.

Ma quel che lo rese veramente popolare presso le gerarchie burocratiche cinesi furono le sue nozioni astronomiche.

Fin dall’epoca degli Hàn (), o forse anche da prima, i Cinesi scrutavano il cielo alla ricerca di regolarità nella speranza di predire i cambiamenti climatici dei cicli stagionali e di interpretarne segni cui attribuivano significati esoterici. La necessità di controllare le acque dei grandi fiumi, con i loro benefici effetti sulla fertilizzazione delle zone inondate, aveva portato, come in Mesopotamia, ad un’intensa attività di osservazione. Il calendario era un fattore importante della vita produttiva del Paese e, quasi in ogni epoca della sua storia, alla sua pubblicazione ogni anno venivano dedicati sforzi ingenti da parte di personale di altissimo prestigio. Inoltre i significati legati ai fenomeni celesti avevano una ricaduta politica molto importante. Per questo, oltre ad una ricerca astronomica di alto livello originalmente cinese, nei periodi di maggiore apertura ai contatti culturali con altre civiltà i Cinesi avevano cercato di assimilare metodi e conoscenze astronomiche. Sotto gli Yuán () erano stati fondati osservatori astronomici, di cui uno organizzato secondo l’impostazione tradizionale e l’epistemologia cinese, l’altro che seguiva invece idee provenienti dal mondo mussulmano, gestito e diretto da importanti scienziati persiani, come Jamal

Jamal ad-Din (Jamal ad-Din ( جمال الدين محمد بن طاهر بن محمد الزيدي البخاري Jamāl alDīn Muḥammad ibn Ṭāhir ibn Muḥammad alZaydī alBukhārī, 扎馬魯丁 Zhāmǎlǔdīng), o siriani come il nestoriano Isa Tarsah Kelemechi (愛薛 Ài xuē 1227 – 1308). Era questo quello che Ricci chiamò Collegio musulmano e che, benché entrato in qualche modo in crisi, rivaleggiava con le altre analoghe istituzioni cinesi nei risultati osservativi e predittivi.

Ma il Ricci aveva qualcosa di più efficace: i metodi galileiani. Grazie ad essi predisse un’eclissi di sole avvenuta il 22 settembre 1596 con maggiore precisione di quanto avevano potuto fare astronomi mussulmani e cinesi.

In quel periodo, 1596, altri confratelli raggiunsero il Ricci a Nánchāng e gli recarono doni da parte del Valignano per l’Imperatore qualora fosse riuscito a mettersi in contatto con lui. Particolare ammirazione suscitarono un monumentale orologio meccanico ed uno strumento musicale a corde e tastiera (clavicordo) per cui poi il Ricci compose musiche. Tra i latori anche il cinese di Macao Francisco Martines (黃明沙 Huáng Míngshā 1570 – 1606), uno dei primi cinesi ad entrare nella Compagnia ed anche uno dei primi martiri del Cristianesimo cattolico in Cina: morirà sotto tortura nel 1606 falsamente accusato di aver preso parte ad un complotto straniero per invadere la Cina da un altro cinese che era stato cristiano e poi aveva fatto apostasia.

Nel 1598 Ricci si rimise in cammino verso Pechino al seguito di un altro potente amico cinese, ma a Nanchino fu raggiunto da un’ondata di sentimenti xenofobi suscitati dai successi militari giapponesi. In occasione del compleanno dell’Imperatore sperava che lo avrebbero lasciato entrare nella capitale. Navigò a lungo per i lunghissimi canali che solcano il territorio, ma dovette ripiegare a Línqīng (临清) nello Shāndōng (山東), che comunque era già un bell’avvicinamento. Lasciò in quella città alcuni confratelli che dettero origine ad un’altra casa dell’ordine e si recò, nel freddo inverno, in un’altra città lontanissima dove lo aspettava il suo vecchio amico Qú Tàisù. Vi arrivò quasi morto di freddo e laggiù attese che l’atmosfera cambiasse.

L’anno successivo, dopo la sconfitta dei Giapponesi, poté recarsi a Nanchino, dove frequentò notabili ed intellettuali e potette aprire una residenza gesuitica. Acquistò una casa, la benedisse e ne cacciò così gli spiriti che, secondo l’opinione del popolo, la infestavano (cose che ne aveva notevolmente abbassato il prezzo). Anche questo lo fece apprezzare dal contesto sociale. Con alcuni compagni prese a predicare con successo anche tra gli strati più umili. Quelli elevati invece erano di un’opinione religiosa particolare, mischiavano in un solo credo elementi confuciani, buddisti e taoisti. Con loro Ricci, più che predicare, dissertava filosoficamente od insegnava matematica. Diffuse molti autori occidentali e molti concetti del pensiero greco.

Scrisse un trattato astronomico e cosmologico e ridisegnò il mappamondo, realizzando un’edizione che avrebbe avuto grandissimo successo.

Nel 1600 riprovò a raggiungere Pechino, ottenuti i permessi di viaggio necessari. Partì coi confratelli Diego Pantoja (龐迪我 Páng Díwǒ 1571 – 1618), i due fratelli cinesi, il citato Fernandez e tale Manuel Pereira (al secolo Yóu Wénhuī 游文辉 1575-1630), ed alcuni servi ma a Línqīng la comitiva si scontrò col potere della classe degli Eunuchi al servizio dell’Imperatore, i Tàijiàn 太監.

Nati dall’uso di castrare e schiavizzare soprattutto i prigionieri di guerra, gli Eunuchi erano stati impiegati dapprima per la sorveglianza delle mogli dei notabili, poi in molte mansioni soprattutto a palazzo reale, nell’amministrazione, nell’esercito, nelle esattorie, nelle missioni all’estero ed in servizi di polizia segreta facenti capo all’Imperatore od ai vertici più alti. Molti personaggi importanti della storia cinese, come visto sopra, erano proprio eunuchi. Al tempo del Ricci erano circa 100.000 di cui 20.000 solo nelle varie residenze reali ed occupavano posizioni chiave, al punto che non era infrequente che famiglie poverissime castrassero alcuni loro bambini per poterli inserire nelle gerarchie e viverne di rendita, un po’ come accadeva in Italia per i controtenori. Nei vari palazzi e nelle istituzioni spesso complottavano e talora costituivano un potere parallelo a quello della burocrazia. Si è già accennato a come costituissero un blocco politico più aperto ai commerci ed ai contatti internazionali contrapposto a quello della burocrazia di origine feudale ed agraria, più chiusa e xenofoba. Da quasi 200 anni gli Eunuchi avevano anche una scuola di amministrazione dedicata a loro ed in qualche caso divenivano letterati forbitissimi. Erano quindi in grado di condizionare molte scelte politiche a vari livelli.

Quelli con cui si scontrò il Ricci erano addetti all’esazione di tributi ed alla selezione e trasmissione al personale della corte imperiale dei rapporti che, a migliaia ogni giorno, giungevano in diverse forme dai funzionari delle istituzioni periferiche e da notabili vari. L’informazione in un organismo complesso come l’Impero era potere ed in questo ruolo nevralgico si concentravano grandi possibilità di omissione, distorsione e ricatto. Due Eunuchi, un esattore ed un ufficiale navale, addetti al controllo dei mezzi su cui i Gesuiti stavano viaggiando per i canali decisero di trattenerli per taglieggiarli. Speravano di poter trattenere tutti i meravigliosi doni destinati all’Imperatore. Poi li trasferirono a Tiānjīn (天津) e li rinchiusero in una gelida prigione. Ma al Pechino si sapeva che questi prodigiosi occidentali stavano per arrivare e qualcuno cominciò a chiedersi dove fossero finiti. Alle richieste dei messi imperiali venne risposto con rapporti lacunosi. Dopo qualche tempo i dignitari pechinesi capirono che c’era qualcosa di sospetto e fecero sì che giungessero un ordine imperiale ed una scorta per portare i missionari, considerati da allora come importanti ambasciatori stranieri. Le parti, tra Eunuchi esterofili e burocrati xenofobi, per una volta si erano invertite.

I Gesuiti giunsero a Pechino nel 1601 con solenni cerimonie e preceduti da grande fama. L’evento venne ricordato negli annali imperiali, tanta fu la sua importanza. Ricci si mise a disposizione dell’Imperatore, che pure non incontrò mai personalmente, con le sue conoscenze. Quel che suscitò maggiore ammirazione furono gli orologi. Pare che lo stesso Imperatore Wànlì ne fosse entusiasta. Per far suonare il clavicordo Ricci compose delle canzoni tratte da opere morali. Intanto continuava a studiare i costumi dei Cinesi e a raccontarne. Non fu mai ricevuto personalmente dall’Imperatore Wanli, che nonostante il suo ruolo non amava troppo le cerimonie, e dovette fare la genuflessione rituale davanti ad un trono vuoto.

Solo dopo qualche tempo fu concesso al Ricci ed ai compagni di prendere una casa con l’aiuto di fondi statali. Ricominciò a frequentare intellettuali e notabili in discussioni e banchetti. Risiedeva nella capitale, mantenuto assieme ai compagni di viaggio da un appannaggio statale.

In un paio d’anni i missionari battezzarono una settantina di persone. La venerazione per Santi e persone sacre del Cristianesimo si diffuse anche a livello popolare. Nelle classi più alte molte concubine furono ripudiate dai catecumeni. Tra essi anche parenti dell’Imperatore, personale di corte, artisti e tre altissimi funzionari che divennero poi i Tre grandi pilastri del cristianesimo cinese (中国天主教的三大柱石 Zhōngguó tiānzhǔjiào de sān dà zhùshí): Lǐ Zhīzǎo (李之藻 1565 – 1630), battezzato col nome di Leone (liáng), Xǔ Guāngqǐ (徐光启 1562–1633), chiamato Dottor Paolo e Yáng Tíngyún (杨廷筠 1557–1627) battezzato Michael ( 弥额尔 Mí’é’ěr), che fu poi molto attivo nella diffusione del Cattolicesimo specialmente nello Zhèjiāng.

Oltre che del cristianesimo essi furono pilastri anche della diffusione della cultura europea in Asia e del dialogo tra i due mondi, in special modo in campo scientifico. Il primo dei tre convinse Ricci a realizzare altre opere di tipo geografico ed astronomico. Tra esse una mappa xilografata del 1603 che ebbe grandissimo successo anche fuori dal Paese. Insieme tradussero un compendio di aritmetica del Clavio (Epitome Arithmeticae Practicae 1583)

Col secondo, scienziato eclettico oltre che burocrate, Ricci collaborò alla traduzione cinese dei primi sette libri degli Elementi di Euclide, cui aveva messo mano anche anni prima insieme a Qú Tàisù, dall’edizione curata dal Clavio. In quella edizione del 1607, cui collaborò anche il gesuita Sabatino de Ursis (1575–1620), furono create parole nuove con le quali ancora oggi i Cinesi chiamano gli oggetti della geometria che non appartenevano alla letteratura scientifica tradizionale. L’impatto di quella traduzione sulla scienza e sull’arte figurativa cinesi, a valutarne gli effetti nel giro di un paio di secoli, fu veramente massiccio. Il resto degli Elementi furono poi tradotti da Lishànlán (李善蘭 1810 – 1882) nel XIX secolo. Insieme Ricci ed il Dottor Paolo tradussero poi opere confuciane in latino.

Un’altra conversione eccellente fu quella dell’astrologo ed esperto di pratiche occultistiche tradizionali Lǐ Yìngshì (李应试 ?) detto Paolo Li, che quando accettò il Cristianesimo portò tutta la sua biblioteca di libri idolatri e pagani e tutti i suoi strumenti di divinazione alla più vicina casa della Compagnia perché fossero distrutti e sepolti.

A Pechino Ricci scrisse anche opere filosofiche e precettistiche in cinese, ed una storia della penetrazione del Cristianesimo nel Paese.

Morì nel 1610 e venne sepolto a Pechino in un terreno donato all’uopo dall’Imperatore, grandissimo onore per uno straniero. Venne eretto un mausoleo che venne profanato nel corso della Rivolta dei Boxers nel 1900 e della Rivoluzione Culturale (文化大革命 Wénhuà Dàgémìng 1966 – 1976); le ossa dei missionari furono disperse. Poi la tomba venne restaurata dal Governo.

22 Astronomi cristiani oltre i Míng

Pur con qualche episodio di minore tolleranza, i Gesuiti riuscirono ad installarsi bene alla corte dei Míng. Il ritrovamento della stele nestoriana nel 1624 diede loro modo di dimostrare che il Cristianesimo non era una religione importata o di matrice straniera.

Ma quel che della loro predicazione più li fece apprezzare, più che in campo religioso fu in campo scientifico. La grande competenza astronomica mostrata dal Ricci aveva impressionato tanto i Cinesi che nel 1629 venne creato a Pechino per i Gesuiti un nuovo Ufficio col compito di correggere le tavole di osservazione e riformare il calendario. Nel 1644 ne assunse la direzione il tedesco Johann Adam Schall von Bell (汤若望 Tāng Ruòwàng 1592 – 1666).

In quello stesso anno si era suicidato l’imperatore Chóngzhēn (崇禎 1611 – 1644), che aveva apprezzato i Gesuiti sino al punto da fracassare gli “idoli”, cioè le statue di venerazione della sua religione, meditando forse di convertirsi al Cristianesimo. Nel 1644 si fissa la caduta della dinastia Míng e l’avvento della dinastia Qīng (1644 – 1912), che sarà l’ultima della storia cinese. Il passaggio di poteri si svolse con una specie di guerra civile in cui i lealisti Míng si rifugiarono a sud-ovest mentre i Qīng avanzavano da nord-est .I Gesuiti, da un lato compromessi col vecchio regime, dall’altro in grado di farsi apprezzare anche dai nuovi potenti, si trovarono divisi e spesso in situazioni difficili.

Il gesuita polacco Michał Piotr Boym (卜彌格 Bǔ Mígé 1612 – 1659), fedele al successore dei Míng Yǒng lì (永曆 1623 – 1662), fuggì per selve, deserti e mari sino a Roma per chiedere l’aiuto del Papa contro gli usurpatori e tornò con l’assicurazione delle preghiere del clero romano e con un mandato per muovere un contingente militare da Macao. Arrivò tardi perché si potesse ottenere qualche cosa con la forza contro un nuovo potere già insediato e non se ne fece nulla. Almeno durante il suo soggiorno a Venezia tra il 1652 ed il 1655 lavorò al testo della stele nestoriana insieme ad un compagno di viaggio e di fede cinese, tale Andreas Zhèng (郑安德勒 Zhèng’āndé lēi ). A questa traduzione lavorarono molti altri, sino alla pubblicazione nel 1667.

In Cina intanto altri gesuiti si trovarono coinvolti nel caos, come il matematico Lodovico Buglio (1602 – 1682) che fu costretto a seguire un generale ribelle e venne imprigionato per un anno, per poi essere riabilitato e reintegrato alle sue ricerche. Simili vicende toccarono anche ad altri.

Shall von Bell ed altri puntarono decisamente sul nuovo ordine, riuscendo a farsi accettare addirittura come consiglieri dell’Imperatore Shùnzhì (順治 1638 – 1661). Anche i Qīng, benché avessero una cultura per certi aspetti diversa da quella dei predecessori, tenevano in gran pregio l’astronomia, la rivestivano di significati esoterici legati alla selezione dei gruppi dirigenti ed avevano il problema di sistemare il calendario.

Lo Shall, data nuovamente prova di avere metodi di osservazione e predizione più precisi rispetto agli astronomi tradizionali cinesi e a quelli mussulmani, ricevette onoreficenze accademiche e fu anche fatto mandarino. Ebbe anche il permesso di predicare e costruire chiese. Nel 1661, alla morte di Shùnzhì alcuni alti dignitari pensarono di disfarsi di lui e lo fecero condannare alla crudelissima Morte dei mille tagli o Morte lenta (凌迟 Língchí): un supplizio che prevedeva l’asportazione progressiva di parti del corpo con un coltello. Un provvidenziale terremoto, interpretato come un segno divino di disapprovazione per tale condanna, e l’opposizione di altri personaggi influenti fecero sì che la sentenza fosse annullata, ma il religioso morì poco dopo per le privazioni della prigionia e le conseguenze psicologiche dell’esperienza.

Poco dopo il gesuita fiammingo Ferdinand Verbiest (南懷仁 Nán huái rén 1623 – 1688) riuscì ad imporre a corte il calendario gregoriano su quello tradizionale cinese e quello islamico.

Tornata la calma le relazioni internazionali tra la Cina ed i Paesi europei ripresero e ripresero i viaggi di religiosi. Nel 1684, al seguito del Procuratore Generale delle Missioni in Cina, il fiammingo Philippe Couplet (柏應理 Bǎi yīng lǐ 1623 – 1693) giunse alle corti di Francia e di Inghilterra il mandarino cinese cristiano Michael Alphonsius Chén Fúzōng (沈福宗 ? – 1691) che ottenne un tale successo che Re Louis XIV (1638 – 1715) decise di inviare in Cina alcuni gesuiti matematici francesi. Poco dopo il gesuita cinese Arcadius Huáng (黄嘉略 Huáng Jiālüè 1679 – 1716) inaugurò a Parigi una grande tradizione di studi sinologici e linguistici.

Il successo dei Gesuiti fu minato soprattutto dalle rivalità suscitare a Roma. La questione dei riti cinesi, ossia l’accusa rivolta loro prevalentemente da ambienti francescani di diffondere contenuti idolatrici col loro rispetto per i costumi locali, divenne un elemento critico. Diversi papi cercarono di controllare i Gesuiti in Cina in molti modi, ma spesso il loro radicamento era tale da conferire una certa autonomia rispetto ad un’autorità romana che distava più di un anno di navigazione malsicura.

Il Cardinal Legato Charles-Thomas Maillard De Tournon (1668 – 1710), inviato proprio per vietare ai cristiani di Cina i rituali funerari tradizionali e far firmare ai Gesuiti un impegno scritto contro i riti confuciani, venne imprigionato dalle autorità civili nel 1707 e morì in galera. Questo avvenimento minò la credibilità della Compagnia in Cina ed a Roma. Nel 1773 essa venne sciolta da Papa Clemente XIV (1705 – 1774), ciò che lasciò i cattolici cinesi in preda a successivi periodi di persecuzioni.

La maggior parte dei Gesuiti astronomi lasciò il Paese nel 1774. Louis Antoine de Poirot (1735 – 1813) e Giuseppe Panzi (1734 – 1812) furono gli ultimi tra i circa 920 Gesuiti che predicarono e lavorarono come traduttori, scienziati ed artisti in Cina nel corso di quasi quattro secoli.

 

VI Osservazioni conclusive

23 Incomunicabilità

Sarà forse a causa della globalizzazione, nelle forme che ha preso ai primi del XXI secolo, che noi contemporanei, appartenenti alle società industrializzate ed alla civiltà del traffico interculturale, siamo avvezzi all’apparire pressoché continuo di merci e simboli nuovi provenienti da tradizioni culturali diverse dalla nostra. Ad occhi avvezzi a decenni di telefilm statunitensi, ad uomini abituati a vestiti prodotti in Cina e ad utensili provenienti da chissà dove, con le loro incrostazioni ideologiche, tutta la vicenda raccontata succintamente nelle pagine che precedono più che una storia di rapporti interculturali e diplomatici sembra il racconto dell’incapacità di capirsi tra realtà diverse, separate certo dalla distanza effettiva, ma anche dalla divergenza di interessi e da ideologie autotrofe. Con pochissime eccezioni ognuna delle comunità umane citate, delle società e delle culture si è dimostrata, nel corso di così tanti secoli, incapace di capire poco altro oltre a sé stessa.

Il controesempio più evidente è costituito forse dalle civiltà legate all’espansione mussulmana, che in alcune fasi storiche hanno saputo assorbire quanto possibile in campo scientifico, filosofico e dei costumi materiali per poi rielaborarlo in maniera originale. Un altro controesempio è costituito da alcune fasi dell’espansione e della dominazione mongola su territori così grandi e diversi e su società di tale complessità. In ambo i casi i dirigenti di comunità inizialmente povere di contenuti culturali di fronte alle immense sfide di gestione che si presentavano dopo insperati successi militari decisero di valorizzare quanto poteva rivelarsi utile e di dare vita, con la loro interpretazione ed il loro carattere, a civiltà sostanzialmente nuove. In ambo i casi i risultati furono meravigliosamente imponenti, sebbene nel primo caso più duraturi.

Per il resto rimane il rammarico di che cosa avrebbe potuto essere lo sviluppo dell’umanità se le enormi potenze e civiltà citate fossero riuscite a capirsi ed a collaborare.

24 Importanza della Persia e della Siria nella prima fase dei rapporti tra Cina ed Europa

Come si è detto la Siria e la Persia hanno costituito da sempre la cerniera naturale tra Oriente ed Occidente. Oltre alle caratteristiche culturali delle civiltà autoctone hanno sempre posseduto anche il senso dell’altro, della variante, dell’esistenza di modi di vita diversi. Nei mercati delle città di queste due aree ci sono sempre state merci e persone che venivano da luoghi lontani e che facevano intravvedere la possibilità di mondi in cui valevano leggi diverse e valori poco comprensibili. Fenomeni di chiusura e di paura della diversità ci sono stati anche qui ma hanno costituito episodi relativamente contenuti nel tempo.

Non si può dir così per l’Europa antica e medioevale e men che mai per la Cina. Centrate fondamentalmente su loro stesse, le tante culture succedutesi nel loro seno hanno ammesso l’altro come barbaro, più che altro per difendersene, per combatterlo, per dominarlo. Le eccezioni hanno riguardato ceti mercantili ed imprenditoriali, spesso in conflitto con aristocrazie più antiche legate a forme di produzione interne (tipicamente la proprietà fondiaria) od alle strutture burocratiche (negli apparati imperiali o nella Chiesa).

Egualmente centrate sulla loro particolare esperienza e sulla loro limitata visione del mondo sono, solitamente, le piccole comunità di allevatori-guerrieri legate insieme da rapporti di sangue o da alleanze di clan come erano certamente i Mongoli all’inizio della loro espansione.

Al loro arrivo in Persia ed in Cina dopo sanguinose conquiste i loro gruppi dirigenti entrarono a contatto con civiltà elaboratissime e raffinatissime. Spinti forse dalle complesse necessità di gestione in cui si trovarono, cominciarono ad interrogarsi su che cosa mai facessero questi strani popoli soggiogati, perché si preoccupassero tanto di certe cose che loro non conoscevano, di come facessero a sfamare tanta gente tutto l’anno, di come sembrassero assai meno soggetti di loro (allevatori di cavalli negli altipiani e pochissimo coltivatori) ai capricci del clima ed alle transumanze forzate. Canali, modelli di redistribuzione delle risorse, persino lingue e sistemi simbolici: la visione dei Mongoli si ampliava e maturava il progetto di instaurare civiltà sostanzialmente nuove, con loro all’apice di società armoniose e complesse, non più fondate sulle rudi usanze dell’ordalia, dell’eroismo e del sangue.

A distanza di un certo periodo troviamo parzialmente realizzati questi ideali in Persia, con l’Ilkhanato ed in Cina con la Dinastia Yuán. Ma certamente nei due contesti la costruzione di una nuova identità culturale dovette seguire percorsi molto diversi. Il sospetto che viene riflettendo su quanto narrato in queste note, seppure non si siano ritrovate conferme nella letteratura storiografica, è che in Persia le cose siano state in qualche modo più semplici per i nuovi dominatori. Aperta alle novità provenienti dall’estero e in qualche misura più comprensibile rispetto alla civiltà cinese, con istituzioni e linguaggi specifici molto più complessi ed impenetrabili, ospitava un coacervo di culture che si erano ritrovate sotto l’ideologia dell’espansione dell’Islàm ma che mantenevano lingue ed usanze molto diverse. L’Islàm stesso era un collante sociale forte ma non troppo invasivo, all’epoca, riguardo alla sfera dell’espressione e della vita materiale, sebbene la resistenza alle Crociate avesse già gettato le basi di quell’indurimento che porterà poi, sotto i Turchi, alla ricerca di una maggiore uniformità di vita e di pensiero. Di fronte ai Mongoli si presentarono città cosmopolite che brulicavano di intellettuali che traducevano tra le tante lingue parlate in molti luoghi diversi quelle opere che avevano garantito la trasmissione dei contenuti dell’antichità in un’epoca in cui l’Europa non era stata in grado di mantenerne la memoria.

L’Ilkhanato costruito prima e più agevolmente dell’Impero sulla Cina. A suffragare questa ipotesi c’è l’intenso traffico di personalità altolocate tra Mongolia e Persia, prima, e poi tra Persia e tutti gli altri domini e khanati, massime la Cina, che fa sospettare che per lungo tempo i dirigenti mongoli siano stati mandati ad imparare in Persia l’arte del governo. Quasi tutti i principi nominati sopra fecero un qualche periodo di servizio in Persia in qualche posizione, persino parenti dell’Imperatore Kublai

Moltissimi furono i tecnici specializzati e gli esperti reclutati nel mondo islamico per servire il Khan in Cina; qui si sono citati solo gli scienziati Jamal ad-Din ed Isa Tarsah Kelemechi che si occuparono di astronomia. Molti furono anche gli intellettuali cinesi che daranno contributi importanti all’Ilkhanato, come ad esempio i due religiosi nestoriani Yahballah III e Rabban Bar Sauma, ma tutto porta a pensare che il modello culturale cui per un periodo guardarono i Mongoli fu proprio quello della società persiana.

Un altro indizio è quello di uno dei nomi della nuova grande capitale che gli Yuán fondarono in Cina: oggi si chiama Běijīng (北京) cioè “Capitale” () “del Nord” (), per riconnetterla alla storia generale della Cina che ha avuto altre 3 importanti capitali, ma alla fondazione si chiamava Dàdū (大都), cioè “Grande” () “Città” (), oppure Khanbaliq (汗八里 Hàn bālǐ). Quest’ultimo nome che significa “Residenza del Khan” non è cinese. La traslitterazione in caratteri cinesi è fonetica, in mezzo c’è anche un 8 che non vuol dire niente. “Khan” è parola mongola ma “Baliq” (residenza) deriva dal turco. Cioè, ironia della sorte, proprio dalla lingua del popolo che sconfiggerà poi i Mongoli in Persia e distruggerà l’Ilkhanato. Ma perché degli statisti mongoli in procinto di costruire un grande simbolo di coesione sociale come la grande città capitale di un nuovo impero avrebbero dovuto usare una parola turca, che solo alcuni loro cugini avevano sentito incontrando, le armi in pugno, alcune popolazioni nomadi dell’Asia Centrale? Probabilmente perché quel termine era in uso anche nel Paese la cui civiltà faceva da modello per tutta l’Asia, di cui si favoleggiavano meraviglie ed in cui i parenti prossimi dell’imperatore facevano la loro gavetta di amministratori. Turchi, insieme a Kurdi, Persiani e mille altre culture e lingue risiedevano in Persia ed in Siria già da tempo.

La Persia fu compresa dai Mongoli in tempi più brevi rispetto alla Cina e fu non solo dominata, come superficialmente lo furono anche le steppe russe o l’Asia Centrale, ma impregnata in maggiore profondità.

Tutti i popoli soggiogati in brevissimo tempo si scrollarono prima o dopo il dominio mongolo dalle spalle, in qualche caso solo per vedersi soggiogare nuovamente da altri dominatori di cultura diversa. In Persia ed in Cina l’apporto dei Mongoli fu più duraturo e, benché ufficialmente la loro memoria fu dannata, rimasero in quelle due regioni molti segni della loro presenza. In Cina rimasero addirittura istituzioni scientifiche ed usi molto proficui.

La centralità della Persia in queste vicende segna anche l’atteggiamento degli Europei, soprattutto Papi, nel prendere contatto: se dapprima le ambascerie richiedono ai Mongoli di fermare l’invasione ad occidente, quando sono i Mussulmani organizzati per resistere ai Crociati ed i Turchi in espansione a preoccupare le potenze cristiane i contatti con i Mongoli riguardano l’alleanza contro di loro. Se in qualche caso i legati vengono mandati prima a Karakorum e poi a Pechino è perché le autorità locali non si sentono in diritto di accettare e demandano ai livelli superiori. I contatti con la Cina sono, sostanzialmente, degli incidenti di percorso. Nessuno pensò mai sul serio che i Cinesi potessero essere di qualche aiuto contro i Turchi, né veramente che il dominio dei Tartari potesse essere strappato al paganesimo almeno sino al viaggio a Roma di Rabban Bar Sauma e l’invio di Giovanni da Montecorvino.

24 Il pianeta Ricci

È molto difficile oggi valutare l’impatto dell’opera di Matteo Ricci (利瑪竇 Lì Mǎdòu; 1552 – 1610) sul dialogo tra culture e religioni, sull’immaginario cinese e sul successivo sviluppo intellettuale dell’umanità. Forse una visione più completa sarà data degli studi cinesi che si stanno moltiplicando in questa fase nel campo della storia e dell’antropologia. Per ora possiamo appoggiarci ad alcune fonti storiche cinesi, a molte testimonianze dirette dello stesso Ricci e dei suoi collaboratori, agli studi storici occidentali e alle fonti relative al dibattito sui Riti Cinesi.

Un altro ambito in cui fervono attualmente in Italia ed in Cina le attività di ricerca è quello dell’influenza dell’opera di Ricci e dei suoi collaboratori sulla penetrazione della matematica euclidea e della fisica galileiana non solo in Cina ma in tutti i Paesi del cosiddetto Estremo-Oriente. Quel che è certo è che la matematica cinese, che era in una fase di stallo, quando vennero tradotti i primi libri degli Elementi cambiò radicalmente e ricevette nuovo impulso.

Un altro aspetto epistemologicamente interessante riguarda l’astronomia galileiana: più efficace di quella tradizionale cinese (pur con la grandissima disponibilità di osservazioni storiche di eventi celesti, la maggiore al mondo) e di quella mussulmana nella previsione di eclissi e nella descrizione di eventi e fenomeni, venne usata in Cina da religiosi anche quando era stata limitata e bandita dalle autorità ecclesiastiche in Europa. Il Ricci morì nel 1610, convintissimo che l’astronomia galileiana fosse l’unico mezzo per farsi apprezzare ed ascoltare dalle autorità cinesi e così al corrente delle novità scoperte con questi nuovi metodi che aveva scritto a più riprese che gli venissero mandati scienziati. Lo stesso anno Galileo Galilei (1564 – 1642) pubblicava il Sidereus Nuncius, col quale cominciavano i suoi guai col Sant’Uffizio. In seguito, in una missione lontana, gli astronomi gesuiti, peraltro informatissimi degli sviluppi scientifici e delle vicende dello scienziato pisano, si guardarono bene dall’abiurare il loro più grande strumento di accettazione sociale e continuarono ad usare cannocchiali ed equazioni eliocentriche. Anche su questi aspetti la ricerca internazionale e cinese è in una fase di grandi progressi.

25 Tolleranza, persecuzioni e promozione sociale

A parte qualche grave episodio, nel corso della millenaria storia della Cina le istituzioni cinesi si sono mostrate tolleranti con chiunque non mettesse in discussione poteri e sistemi di produzione. Anzi solitamente chi aveva competenze veniva promosso a ruoli dirigenziali, a prescindere dalla religione o dalla cultura di origine. Le persecuzioni di movimenti religiosi o filosofici si rivolsero più che altro contro i Buddisti nei tempi antichi. Alle altre religioni più che altro lo Stato impedì la predicazione e bandì i sacerdoti. I Francescani ad esempio furono espulsi ed anche i Gesuiti ebbero periodi difficili, pur dopo anni di rapporti cordiali e di lavoro proficuo per tutti. Ebrei e Mussulmani non furono mai perseguitati in quanto tali, ma solo nei casi in cui movimenti messianici o culturali sviluppavano istanze politiche e rivendicazioni sociali.

Ci furono invece movimenti religiosi che scelsero persino la via della lotta armata, talora sobillati da potenze straniere, sempre repressi duramente dal potere centrale. Ciò accadde in particolar modo durante le ultime fasi del potere della dinastia Qīng (1644 – 1912). Forse in cerca di una legittimazione o nella necessità di rafforzare il loro potere, questi imperatori si resero colpevoli di repressioni veramente impressionanti per il numero di vittime. Anche in quei periodi, però, va ricordato che la Cina offrì asilo agli Ebrei perseguitati in Russia, così come in seguito molti Ebrei vi trovarono rifugio durante la Seconda Guerra Mondiale.

La Repubblica di Cina (中華民國 Zhōnghuá Mínguó 1912 – 1949) vide, nuovamente, uomini delle più diverse culture e religioni collaborare insieme, anche tra i ranghi più alti dell’esercito e delle cariche civili. Il sistema sociale legato al Confucianesimo venne distrutto e con esso anche il legame tra Stato e religione.

La Repubblica Popolare di Cina (中华人民共和国 Zhōnghuá Rénmín Gònghéguó) era uno Stato ateo ispirato ai principi del Marxismo-leninismo in una versione piena di spunti originali e particolarissimi. Come tale da un lato vedeva nelle religioni un residuo piuttosto dannoso del passato feudale e coloniale, dall’altro almeno formalmente tutelava le minoranze culturali e linguistiche. Nel complesso la religione come fatto individuale non era attaccata dallo Stato, che però manteneva rapporti piuttosto ostili con le istituzioni religiose. Nuove persecuzioni assai radicali si ebbero da parte delle Guardie Rosse (紅衛兵 Hóng Wèibīng) durante la Rivoluzione Culturale (文化大革命 Wénhuà Dàgémìng 1966 – 1976). Chiese e moschee vennero distrutte, così come templi buddisti e confuciani. I libri sacri di tutte le religioni vennero bruciati ed i cimiteri profanati. Anche per religiosi e fedeli si giunse a volte all’eliminazione fisica. Alla fine di quel periodo di sconvolgimenti la politica cambiò e nel nome della libertà di culto vennero riconosciute ufficialmente 5 religioni: Buddismo, Taoismo, Islàm, Cattolicesimo e Protestantesimo, che contano in tutto circa 100 milioni di adepti in totale nei censimenti ufficiali. Permangono bandi verso altre religioni.

Oltre alle istituzioni culturali di tutela delle minoranze religiose citate va ricordato che lo Stato cinese incoraggia oggi studi ed attività a favore del Buddismo e del Taoismo, e che il Confucianesimo è oggetto di grande promozione internazionale. Il recente recupero delle tradizioni confuciane va visto come ricerca di una identità culturale che l’apparato ideologico del marxismo – leninismo, cui le istituzioni negli ultimi venti anni hanno fatto riferimento in modo sempre più formale sino a distanziarsene completamente, non riesce più a fornire di fronte alle enormi trasformazioni della società cinese, che ha oggi adottato alcuni aspetti del capitalismo.

La Cina di oggi si presenta come un Paese vincente e moderno, in procinto di dominare la scena commerciale e diplomatica internazionale, pur se travagliato da grandi contraddizioni sociali. L’economia globale è oggi nettamente influenzata dalle scelte produttive e sociali del grande Paese asiatico, che deve porsi il problema di colmare le enormi differenze materiali e culturali tra le zone sviluppatissime della costa e quelle più arretrate dell’interno. Un Paese che cerca la sua armonia anche nella riscoperta delle sue tradizioni.



 

Category: Culture e Religioni, Osservatorio Cina

About Giovanni Giuseppe Nicosia: Giovanni Giuseppe Nicosia (1974 Bologna) Insegnante di sostegno di area scientifica nella scuola secondaria di secondo grado e studioso di etnomatematica e didattica della matematica, ha militato fin da giovanissimo in alcune organizzazioni della sinistra approfondendo i rapporti con movimenti e partiti di altri Paesi (in particolare il Fronte Polisario del Sahara Occidentale ed il Movimento Sem Terra del Brasile). Nel frattempo ha studiato Matematica a Bologna sotto la guida di Bruno D’Amore e Piero Plazzi ed ha tradotto dal portoghese il classico Etnomatematica di Ubiratan D’Ambrosio e Disegni africani dall’Angola per vivere la matematica di Paulus Gerdes. Ha poi pubblicato Numeri e culture - alla scoperta delle culture matematiche nell’era della globalizzazione e Cinesi, scuola e matematica che analizzano il rapporto tra globalizzazione, culture matematiche e visioni della scuola. Attualmente anima, con alcuni amici, un doposcuola volontario di quartiere in Bolognina e si sta dedicando a progetti sulla disabilità, la discalculia e la difficoltà elettiva in matematica. È membro dell’International Study Group of Ethnomathematics (ISGEm), del Gruppo di Ricerca, Sperimentazione e Divulgazione della Didattica della Matematica (RSDDM) di Bologna, del Gruppo di Formazione Matematica della Toscana (GFMT) e del sindacato FLC-CGIL.

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