Giancarlo Gaeta: I volti moderni di Gesù

| 1 Marzo 2012 | Comments (0)

 

Diffondiamo da Lo straniero del 1 marzo 2012
Pochi giorni prima dello scorso Natale, si è svolto a Venezia un convegno di studi dedicato alla figura di Gesù nelle letture molteplici che storici, pensatori, scrittori e artisti ne hanno dato lungo il corso dell’epoca moderna, dall’alba del Rinascimento italiano al declinare dell’Europa segnata dalle tragedie del Novecento. Un programma ambizioso voluto e perseguito con tenacia da Isabella Adinolfi con il supporto dell’Università Ca’ Foscari, al fine di ampliare e dare maggiore sostanza intellettuale a una questione che rischia attualmente di esaurirsi in sterili conflittualità.

Certo, non di tutto si è potuto dare conto in quelle tre concentratissime giornate; sono mancate voci importanti tra i filosofi, come Pascal, Spinoza, Simone Weil; si è appena sfiorato l’immenso contributo dell’arte e quello pur così rilevante della cinematografia, né ci si è potuti misurare con la mutata percezione di questa figura chiave nel mondo della scienza. Quanto alla ricerca storica e alla riflessione teologica, che tanta parte hanno avuto e hanno nella ricerca e discussione sul cosiddetto “Gesù storico”, se ne è trattato solo a inizio convegno con interventi dedicati a Troeltsch e a Metz, preferendo valorizzare le potenzialità poco sondate di una interrogazione che sulla filosofia e la letteratura moderna ha avuto un impatto tanto più rilevante quanto più, liberatosi da ogni dipendenza da presupposti dogmatici, il pensiero procedeva a proprio rischio su terreni viepiù accidentati.


Dunque a emergere è stato per un verso il Gesù a cui i filosofi hanno cercato ora di dare collocazione in freddi sistemi razionali, ora di assumerlo in modo passionale, da Kant e Hegel a Bergson, Jaspers e Zambrano, passando per l’apice del confronto tra Kierkegaard e Nietzsche. Per altro verso il Gesù narrato o riflesso da tre grandi scrittori dell’Ottocento: Leopardi, Dostoevskij e Tolstoj. Ma anche il Gesù oggetto di conflitto politico-religioso nell’Italia clerico-fascista di Martinetti e Omodeo. Ne è risultato uno spaccato significativo dell’immane conflitto delle interpretazioni che l’età moderna ha portato con sé sotto la pressione crescente di scienza, tecnologia e industrializzazione, con la conseguente rottura dei tradizionali modelli intellettuali, morali e religiosi, a cui non ha potuto sottrarsi neppure il perno attorno a cui per oltre un millennio era ruotata la civiltà europea: il Cristo della teologia, del culto, della pietà popolare. La coscienza di questa frattura sembra ora essersi fatta più chiara a voler considerare quanto diffusamente ci si occupa e si discute di colui che era stato posto a fondatore e fondamento della religione cristiana, ma che appare oramai piuttosto come una figura isolata in una specifica vicenda drammatica, dalla quale si possono certo ricavare fondamentali insegnamenti morali e di vita pubblica, come pensavano Kant e Hegel, ma il cui potere redentivo appare oramai difficilmente ricevibile, almeno nella forma dogmaticamente definita e comunque non più sotto l’egida delle istituzioni ecclesiastiche.


Emblematico è risultato al riguardo il riferimento ai due pensatori che con le loro opposte concezioni radicali meglio hanno rappresentato le fratture della coscienza religiosa moderna, vale a dire Kierkegaard e Nietzsche. Per il primo è nella logica del paradosso che il singolo si trova interpellato da ciò che è oggettivamente assurdo, la venuta di Dio nel tempo, e perciò, al contrario di quel che predica il “cristianesimo stabilito”, è con una cristologia respingente che occorre misurarsi, facendo prevalere sulla speculazione astratta e disinteressata l’interesse appassionato per la propria esistenza. Mentre Nietzsche condanna per un verso il cristianesimo con la sua etica da schiavi, e per l’altro rilegge del tutto umanamente la personalità di Gesù: una individualità ipersensibile concentrata sul suo mondo interiore, propensa a caricarsi del dolore altrui, che ha voluto cancellare il male non opponendosi a esso e ha finito col cancellare se stesso. Immagine di dolore e impotenza già anticipata dal nostro Leopardi, quando coglieva in Gesù, demistificatore del mondo fondato sulla violenza, colui che si era fatto carico dell’infinita miseria umana rivestendola dell’illusione potente della sua predicazione evangelica; divini “fantasmi” ben presto sostituiti da verità dogmaticamente imposte e destinate a risolversi in ateismo col progredire nichilistico delle società borghesi. È a fronte di questo prevalere del mondo, dichiarato da Leopardi “avversario di ogni grandezza”, “derisore di ogni sentimento alto”, “schiavo dei forti, tiranno dei deboli, odiatore degli infelici”, che la figura del Christus patiens ritrova posto e verità nella letteratura dell’Ottocento, come nei casi alti di Dostoevskij e di Tolstoj. Ma oramai al di fuori di ogni schematismo dottrinale e sottratto alla presa di un sapere teologico codificato; piuttosto come occasione decisiva di nuda interrogazione sull’umano, sull’ingiustificabilità della condizione umana, sulla crepa che frange l’esistenza moderna e fa rovinare la civiltà europea, rispetto alla quale l’agire controfattuale di Gesù può ancora consentirci una percezione di sensatezza che non è tuttavia fruibile senza cadere a propria volta nella follia dell’“uomo buono”. Di questo stato delle cose il corso travagliato del Novecento ha offerto conferme estreme, che agli spiriti lucidi hanno imposto di avventurarsi nella ricerca di nuovi punti di partenza, di fondamenta da ricostituire, ma, bisogna dire, restando inevitabilmente isolati. Non sarà la filosofia, né l’arte, né la poesia, tanto meno la teologia a salvare l’Occidente dal suo ottuso cupio dissolvi. Perciò tanto più risultano preziosi i rari richiami di un Metz, di una Zambrano, di un Tarkovskij e dei pochi altri che hanno indicato nella memoria passionis l’ultimo ponte che ci è dato per accedere a quello che in definitiva resta per l’Occidente il segno di contraddizione: la parola incarnata e crocifissa; un’icona che non possiamo cancellare senza cancellare noi stessi.


Una singolare coincidenza ha fatto sì che l’immagine scelta per la locandina del convegno fosse la stessa che da qualche mese campeggia gigantesca sul fondo scena di una pièce teatrale che, dopo aver girato l’Europa, è diventata da ultimo occasione di contestazioni anche violente da parte di espressioni dell’integralismo cattolico francese, nonché oggetto degno di censura per i vertici stessi del Vaticano. L’immagine in questione è quella del Cristo benedicente di Antonello da Messina e ragione di tanto scandalo è che sotto lo sguardo di quel volto sublime si svolga una vicenda di ordinaria miseria umana: una vita degradata da vecchiezza e malattia, oramai dipendente dal soccorso di un figlio tanto più oppresso dalla situazione quanto più si mostra compassionevole. Uno sguardo che può allora diventare insopportabile e determinare reazioni di attacco e offesa, peraltro infantili nella loro impotenza. Una rappresentazione drammatica, quella messa in scena dalla Socìetas Raffaello Sanzio, totalmente calata nella condizione dell’umanità contemporanea, oscillante tra la menzogna di sentimenti religiosi artefatti e una richiesta di redenzione veritiera che, come suona il titolo, vuole interrogarsi e interrogare Sul concetto di volto nel Figlio di Dio. È in effetti proprio la qualità unica di quel volto per bellezza fisica ed elevatezza spirituale a rendere irrimediabilmente insopportabile il disfarsi della figura umana. Il fatto è che nella condizione contemporanea troppo acuta è la consapevolezza della necessità incombente sull’esistenza in tutte le sue forme, troppo presente il senso di finitudine perché abbia ancora forza di persuasione il puro rimando a concezioni teologiche, dall’affermazione della divinità del Cristo a quella della sua sofferenza e morte espiatrice, tali da stabilire una relazione di partecipazione reciproca tra umano e divino. Questo nesso si è fatto sempre più labile e perciò soggetto o a cadere nell’insignificanza di modelli intellettuali esausti o a trovare nuovo e problematico significato attraverso un processo di decostruzione dei modelli concettuali, come già da tempo va scrivendo da teologo Metz. Di una siffatta messa in questione la pièce teatrale vuole essere una illustrazione provocatoria: il confronto impari tra l’umano e il divino, mediato soltanto dallo sguardo di un’immagine, lascia cadere lo spettatore nel vuoto di una interrogazione a cui soltanto lui può dare risposta.


Non sorprende perciò la reazione furiosa della parte più retriva e ottusa dell’integralismo cattolico, facilmente portata a scambiare per dissacrazione e bestemmia qualsiasi cosa esca dall’ordine tradizionale della rappresentazione del sacro. Quanto alle rimostranze delle gerarchie ecclesiastiche, a prima vista sconcertanti per l’eccesso di semplificazione nel giudizio, nonché per il palese intento censorio con tanto di appello al “braccio secolare” che di fatto si risolve in appoggio agli estremisti, le si debbono intendere aldilà del dettato in cui sono espresse: un’opera offensiva del Cristo e delle convinzioni religiose dei cristiani. In questione è in realtà qualcosa di più decisivo, vale a dire la ragion d’essere di una pratica religiosa ridotta oramai in larghissima parte a ritualità esteriore, sganciata da una effettiva vita spirituale, e perciò incapace di reggere l’urto di una messa in questione del tradizionale patrimonio religioso. L’attacco pertanto in questo caso non è, come sembra, a un laicismo irrispettoso della fede cristiana, bensì a un’espressione artistica chiaramente sostenuta da uno spirito cristiano talmente radicale da prefigurare esiti incompatibili con la concezione e la prassi religiose vigenti. Una sorta di ripresa esausta degli attacchi virulenti rivolti negli anni venti a Buonaiuti sul fronte interno, a Martinetti sul fronte laico. In definitiva si vorrebbe ancora sbarrare la strada a ogni tentativo di autentica interrogazione sulla condizione umana, tale che possa porre in questione la risoluzione cristiana nella sua formulazione codificata, a cominciare da quella cristologica, che costituisce in questa fase il punto più sensibile del contrasto con la ricerca motivata esistenzialmente.


Una ricerca che come si è visto seguendo il tragitto del convegno veneziano ha radici molteplici nella filosofia, nella storia, nella letteratura, come pure nell’arte, la quale anzi ha anticipato le indagini critiche legate alla nascita della scienza moderna con l’acutezza e la preveggenza che furono propri del prodigio rinascimentale. Si produsse allora, tra la metà del Quattrocento e gli inizi del Cinquecento, un nuovo orientamento dello spirito tale da fare dell’arte uno strumento di conoscenza, e dell’artista altresì uno scienziato e un pensatore e un letterato, capace di ricreare in sé le condizioni per dare espressione all’antico ideale, classico e cristiano, che mirava all’unità del sapere. A questo momento storico ho dedicato il mio contributo al convegno, nel convincimento che per porre nella migliore prospettiva gli esiti attuali della vicenda moderna occorra partire da quell’impresa intellettuale, destinata a cambiare non solo la qualità della nostra sensibilità artistica, ma altresì la conoscenza della natura e della psicologia umana. Di questo, come si sa, Leonardo con la sua pittura e i suoi studi scientifici è stato maestro eminente; meno è stato rilevato lo straordinario effetto che la sua arte ha esercitato sul testo evangelico liberando il fondamento sensibile delle narrazioni dalla morsa del metodo scolastico. Con lui viene meno l’interessare per la ricerca dei significati riposti del testo a vantaggio della dinamica degli affetti che riverbera sulla composizione i moti interiori dei personaggi, come è chiaramente documentato da L’adorazione dei Magi e soprattutto dal Cenacolo. Cosicché chi guarda è sì rimandato a eventi della storia sacra riconsiderati contemplativamente alla luce della fede; ma per un moto di umana simpatia verso gli stati d’animo dei singoli personaggi, pastori o discepoli che siano, diventa egli stesso parte della rappresentazione, indotto a misurarsi a sua volta col mistero della nascita o della morte del Figlio di Dio. Si determina perciò un effetto di contemporaneità nella misura in cui l’evento non è soltanto descritto nei gesti e nelle azioni, ma è vissuto drammaticamente da coloro che ne furono partecipi e ora si offrono al nostro sguardo, ciascuno con il proprio umano sentire.

La lezione di Leonardo ha avuto indubbi effetti sull’arte almeno fino a Caravaggio, che più di ogni altro ne ha inteso la portata, volgendo decisamente le spalle alla pura rappresentazione sganciata dalla realtà della vita. Ma nel frattempo un altro e dissonante processo era iniziato, tale da rimettere in questione l’aspirazione a un sapere che stabiliva un’unione attiva tra l’uomo e la natura, una continuità tra l’indagine scientifica e l’aspirazione al bene e al bello. A imporsi è stata di fatto l’esigenza di totale autonomia della scienza da ogni altro interesse; è stata tracciata una linea di separazione tra verità oggettiva e “finzione” artistica o religiosa. In tal modo la scienza si è liberata da ogni impaccio nel perseguimento del verum, realizzando, con l’ausilio dell’esperienza e degli strumenti matematici, una nuova forma di conoscenza, metodologicamente indifferente al pulchrum e al bonum, al fine di asservire la natura ai bisogni dell’uomo, con tutto ciò che ne è conseguito in termini di progresso scientifico e tecnologico, ma altresì di depauperamento del concetto di arte, decaduta dal rango di conoscenza a mera finzione e divertimento, nonché di crescente perdita di universalità dei valori etico-religiosi.

È a questo stato frammentato del sapere e della coscienza, a questa impotenza a elevare al grado di conoscenza ogni espressione del pensare, del sentire e dell’agire che noi siamo condannati, da quando la civiltà occidentale ha preferito al pensiero come capacità di apprensione del reale la potenza di un pensiero assoluto capace di agire sui dati dell’esperienza uniformandoli a se stesso. La perdita, che non sapremmo come rimediare, è quella di un concetto completo dell’uomo nel suo nesso reale con la natura e la storia, di una pregnante interezza umana di cui il Rinascimento aveva avuta una fattiva prefigurazione, presto destinata a ridursi e a perdersi nel moltiplicarsi e dividersi delle scienze, nello scatenarsi delle controversie teologiche e delle contrapposizioni ideologiche. Va allora da sé che in una siffatta situazione sia andato perso il volto del Figlio di Dio, inconcepibile per un’umanità estraniata da se stessa. Di questo occorrerebbe almeno essere consapevoli, per lasciarsi qualche possibilità di risalire la china.

 

Category: Culture e Religioni

About Giancarlo Gaeta: Giancarlo Gaeta è docente di Storia del cristianesimo antico presso l'Università di Firenze. Ha pubblicato studi sul Nuovo Testamento e di storia dell'interpretazione scritturistica antica, nonché saggi sul pensiero filosofico-religioso del Novecento. Tra i suoi libri: Religione del nostro tempo (Edizioni e/o Roma 1999); Il Dio mortale.Teologie politiche tra antico e contemporaneo (Morcelliana 2002); Le cose come sono. Etica, politica, religione (Scheiwiller 2008); la cura dei Quaderni di Simone Weil per Adelphi , dei Vangeli per Einaudi e del Vangelo di Luca (Quanti Einaudi 2013); Il Gesù moderno (Einaudi 2009); Nota finale al libro di Simone Weil: La persona e il sacro (Adelphi 2012)

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