Kevin Lin: Declino e ascesa dell’industria di Stato in Cina

| 4 Novembre 2012 | Comments (0)

 

 

 

 

 

Questo articolo di Kevin Lin, della University of Technology, Sydney è stato pubblicato in “Inchiesta”  177, luglio-settembre 2012, pp. 82-86

 

La narrazione dell’ascesa economica della Cina è da sempre dominata dalla storia del successo cinese nel campo delle esportazioni. Secondo questo discorso, la Cina sarebbe riuscita a garantirsi un trentennio di crescita economica pressoché ininterrotta attraverso la lavorazione e l’esportazione in tutto il mondo di beni di consumo a basso costo, un risultato ottenuto soprattutto grazie al settore privato e agli investimenti esteri. Pur contenendo più di un frammento di verità, questa lettura ignora un aspetto fondamentale del panorama industriale cinese, vale a dire la continua rilevanza del settore statale, un termine che usualmente non include istituzioni pubbliche come scuole e ospedali, ma si riferisce solo a banche, servizi e organizzazioni produttive di proprietà dello Stato. Si tratta di un’omissione non da poco, se si considera che negli ultimi anni tale settore è venuto ad assumere un’importanza crescente, non solo per l’economia nazionale, ma anche per quella globale.

Secondo l’equivalente cinese della lista delle 500 imprese di Fortune, un elenco compilato dalle organizzazioni rappresentative degli imprenditori cinesi – la Confederazione delle Aziende Cinesi (Zhongguo qiye lianhehui 中国企业联合会)e l’Associazione dei Direttori delle Imprese Cinesi (Zhongguo qiyejia lianhehui 中国企业家联合会) – nel settembre del 2012 ben trecentodieci delle cinquecento aziende con maggior fatturato erano di proprietà dello Stato, un risultato che conferma un trend in corso già da diversi anni. E, di fronte a colossi del settore pubblico che, come le cinesi Sinopec e PetroChina, sono ormai tra le aziende più grandi al mondo, c’è poco da stupirsi se la rivista The Economist si è spinta al punto di descrivere paesi come Cina, Russia e Brasile alla stregua di ‘capitalisti di Stato’.

Per molti aspetti, le autorità cinesi stanno semplicemente seguendo le impronte di altri paesi sviluppisti asiatici, ad esempio adottando politiche industriali finalizzate all’incoraggiamento di un settore statale strategico attraverso la creazione di conglomerati come le Keiretsu giapponesi o le Chaebol sud-coreane. Tuttavia – come è stato sottolineato dall’Economist – il caso cinese presenta almeno una peculiarità: l’inequivocabile proprietà statale di questi conglomerati industriali, sempre più simili a giganteschi animali mitologici. Ed è proprio questa ascesa del settore statale, seguita ad anni di drammatico declino, ciò che spesso sfugge agli osservatori esterni. È dunque importante comprendere il contesto in cui si sviluppano questi colossi del settore statale, quali sono le loro origini e come sono arrivati ad occupare la posizione in cui si trovano oggi.

Nell’articolo che segue, ricostruirò brevemente la storia recente del settore statale, concentrandomi soprattutto sulla sua caduta in disgrazia nel periodo delle riforme e sulla sua nuova ascesa negli ultimi anni. In tale contesto, verranno discussi alcuni cambiamenti relativi ai rapporti di lavoro nel settore statale e ci si soffermerà in particolare sulle sfide che i lavoratori di queste aziende si trovano oggi ad affrontare. Infine, nella conclusione si affronterà la questione del dibattito ideologico che circonda l’industria di Stato, con i sempre più frequenti appelli, provenienti non solo dalle istituzioni finanziarie globali, a ridimensionare il ruolo dello Stato nell’economia se non addirittura a smantellare il settore pubblico.

 

Ascesa, declino e nuova ascesa dell’industria statale

Dopo la presa del potere nel 1949, il Partito Comunista Cinese lanciò un’imponente campagna di industrializzazione nelle aree urbane. La produzione industriale venne organizzata in ‘unità di lavoro’ (danwei 单位) di proprietà statale e collettiva, strutture di base aventi natura non solo economica, ma anche sociale e politica. Tramite le unità di lavoro, i lavoratori urbani avevano diritto ad un’occupazione a vita e godevano di welfare onnicomprensivo – assistenza sanitaria, alloggio, pensioni, etc. – in una sorta di contratto sociale socialista in cui il paternalismo dello Stato veniva usato come merce di scambio per la cooperazione dei lavoratori. Di fatto, nonostante il Partito fosse arrivato al potere grazie al supporto dei contadini, i principali beneficiari del socialismo di Stato maoista furono i lavoratori industriali urbani. In quei decenni, la produzione industriale pesante crebbe considerevolmente e ciò aprì la strada ai successivi sviluppi nel periodo delle riforme.

Questo non implica certo che i lavoratori statali nel periodo maoista fossero entità interamente passive. Di fatto, essi avevano più d’una ragione di scontento nei confronti della gerarchia del potere all’interno del posto di lavoro e ciò occasionalmente esplodeva in proteste, specialmente in concomitanza di campagne politiche. Ciononostante, sin dall’inizio lo Stato ha adottato delle strategie finalizzate alla prevenzione dell’emergere di un movimento operaio, ad esempio monopolizzando la rappresentanza del lavoro attraverso un sindacato ufficiale corporativistico, la Federazione Nazionale dei Sindacati Cinesi (FNSC, Zhonghua quanguo zonggonghui 中华全国总工会), ed eserecitando uno stretto controllo politico attraverso le sezioni di Partito attive in ogni unità. Ciò si è rivelato sufficiente a mantenere una certa pace industriale, tanto che i dipendenti statali non sono mai riusciti a stabilire proprie organizzazioni indipendenti, un fatto che si è poi dimostrato devastante per i lavoratori nel periodo delle riforme.

Le riforme lanciate da Deng Xiaoping alla fine degli anni Settanta introdussero un’economia di mercato in cui le imprese di proprietà dello Stato erano tenute a competere su un piano di parità con le aziende private. Ciò comportò una ristrutturazione del settore statale, con nuove regole adottate al fine di far sì che le imprese di Stato agissero in maniera più simile a quella delle aziende nei paesi capitalisti. Queste misure includevano una maggiore autonomia manageriale, l’introduzione dei contratti di lavoro e il ricorso ad incentivi monetari basati sulla performance. Se nei primi anni Ottanta i lavoratori statali avevano ottenuto significativi aumenti salariali, questi guadagni furono ben presto erosi dall’inflazione, uno dei fattori fondamentali alla base del supporto dei lavoratori alle proteste studentesche del 1989, a Pechino come altrove. All’epoca la FNSC aprì un dibattito sul proprio ruolo in un’economia di mercato, chiedendosi se non fosse ora di trovare delle nuove strategie per rappresentare al meglio i lavoratori, ma il Partito-Stato, allarmato dalla sollevazione popolare e dall’emergere di una società civile, stroncò ogni velleità sul nascere.

Mentre la riforma delle imprese di Stato negli anni Ottanta era stata graduale, gli anni Novanta videro un’accelerazione nella spinta a trasformare un settore statale in declino in aziende in grado di generare profitti. L’apice di questa ristrutturazione delle imprese statali si ebbe nel 1997 con il Quindicesimo Congresso del Partito Comunista, quando le autorità decisero di lanciare un programma complessivo di privatizzazioni, chiusure e licenziamenti, costruito attorno al principio di ‘tenere le grandi [imprese] e lasciar andare le piccole’ (zhuada fangxiao 抓大放小). Questo periodo vide la distruzione di intere comunità cresciute intorno ai luoghi di lavoro e decine di milioni di lavoratori finirono disoccupati, con molti di essi che successivamente non sono più stati in grado di trovare un’occupazione alternativa, in parte a causa della propria età avanzata, in parte per la propria mancanza di qualifiche. Allora i lavoratori statali iniziarono ad organizzare proteste, ma la repressione governativa, unita ai risarcimenti statali e ai servizi per la ri-occupazione, furono in grado di limitare l’attivismo operaio. In questo modo, i lavoratori statali finirono per essere tra le vittime principali delle riforme.

Tuttavia la storia non finisce qui. Contrariamente alle aspettative generali, ciò che inizialmente sembrava essere niente più che un caso tipico di privatizzazione neo-liberista, nel giro di pochi anni si è rivelato essere una deliberata riorganizzazione finalizzata a tutt’altro che lo smantellamento del settore statale. Nei primi anni Duemila, l’industria statale cinese ha iniziato a crescere rapidamente. La riforma delle imprese statali è proseguita per buona parte del decennio, ma era finalizzata non più a ridimensionare l’industria di Stato, bensì a consolidare le aziende rimanenti in settori strategici. Le statistiche nazionali mostrano una notevole crescita nella produttività e profittabilità del settore per i primi dieci anni del nuovo millennio. Ciò era dovuto in parte alla condizione monopolistico di alcune aziende statali, in parte alla quantità di investimenti in macchinari, all’intensificazione del lavoro e ai sussidi governativi. Nel complesso, tutto questo ha contribuito ad un revival dell’industria statale.

 

E i lavoratori?

Cos’è successo ai dipendenti statali in questo periodo di revival del settore di Stato? Le mie ricerche si concentrano proprio su quest’argomento ampiamente sotto-ricercato. Più nello specifico mi sono occupato di come le relazioni industriali nel settore pubblico si siano evolute a partire dalla conclusione del periodo di ristrutturazione, nei primi anni Duemila. Per cominciare, la riorganizzazione ha ridotto le dimensioni del settore statale in maniera significativa. Nel 1998 in Cina c’erano 64.737 aziende di proprietà dello Stato, contro le appena 20.253 del 2010, mentre il numero di lavoratori statali è sceso da 37 milioni nel 1998 a 18 milioni nel 2010. In ogni caso, comunque lo si guardi, il settore statale impiega ancora una forza lavoro di dimensioni considerevoli.

A causa della crescente redditività del settore e della rinnovata enfasi sulla stabilità lavorativa, i dipendenti statali – quantomeno quelli regolari – sono oggi pagati molto meglio, hanno un lavoro più stabile e godono di maggiori tutele delle loro controparti nel settore privato. Questo aiuta a spiegare perché a partire dai primi anni Duemila le proteste operaie nelle imprese di Stato siano diminuite in maniera esponenziale, mentre i lavoratori nel settore privato sono sempre più attivi nell’organizzare scioperi per chiedere salari più elevati e condizioni di lavoro migliori. Eppure, anche se il settore statale ha evitato serie agitazioni operaie negli ultimi anni, non per questo esso è privo di problemi.

Da quando, alla fine degli anni Novanta, un gran numero di lavoratori è stato licenziato o messo in una condizione simile alla cassa integrazione – in cinese il termine tecnico è xiagang 下岗, letteralmente ‘scendere dal posto di lavoro’ – le imprese di Stato hanno iniziato a firmare contratti di durata più breve con i neo-assunti. Ancor più significativo è il fatto che nello stesso periodo le imprese statali abbiano iniziato ad impiegare una quantità sempre maggiore di lavoratori somministrati (paiqiangong 派遣工), i quali firmano un contratto con un’agenzia e poi vengono ‘distaccati’ presso le aziende. Si tratta di un istituto giuridico pensato originariamente per aumentare la flessibilità del lavoro nelle posizioni temporanee, sostitutive e ausiliarie, ma che oggi è diventato una parte integrante dei rapporti di lavoro in Cina, lì dove i lavoratori somministrati vengono impiegati per archi temporali anche molto lunghi.

In questo modo, nel settore statale si è venuta a creare una forza lavoro bipartita: da un lato i lavoratori regolari, assunti con contratti di durata più lunga, se non a tempo indeterminato; dall’altro i lavoratori impiegati tramite agenzia, con contratti a breve scadenza. La prima categoria naturalmente gode di maggiori tutele sul lavoro, riceve salari più alti e un welfare migliore. Questo modello flessibile di occupazione è ormai un fenomeno generale nel panorama delle relazioni industriali in Cina, ma le imprese di Stato sono indubbiamente le realtà che se ne servono in maniera più sistematica ed estesa. Si stima che il numero totale di lavoratori somministrati in Cina vada dai trentasette ai sessanta, o addirittura settanta milioni, ma non esistono statistiche pubbliche affidabili sulla portata del fenomeno nel settore statale. Indagini condotte dal sindacato ufficiale suggeriscono che nelle imprese di Stato la proporzione di lavoratori assunti tramite agenzia sia più elevata, un fatto confermato dalle mie ricerche sul campo in diverse aziende statali.

I lavoratori somministrati si trovano in una posizione precaria. Anche se molti di loro hanno lavorato in una stessa azienda per diversi anni, essi hanno poche occasioni di diventare lavoratori di ruolo. Quest’incertezza, così come l’inferiore livello salariale a parità di lavoro svolto, in futuro potrebbe trasformarsi in un motivo di agitazione nel settore statale. Di fatto, già oggi sporadicamente si verificano dei casi di resistenza da parte di lavoratori assunti tramite agenzia. Per prevenire il degenerare della situazione, a livello nazionale sono in discussione nuove norme di legge finalizzate a limitare l’utilizzo di questa modalità d’assunzione, ma inevitabilmente ogni riforma in questo senso dovrà scontrarsi con una forte resistenza da parte delle imprese di Stato più potenti.

 

Assalti ideologici

Oltre alla potenziale sfida delle agitazioni operaie, il settore statale in Cina è oggetto anche di assalti ideologici. Dal momento che le imprese di Stato cinesi ora sono tra le più grandi non solo in Cina ma anche nel mondo, è naturale che esse appaiano minacciose agli occhi del capitale privato, soprattutto in un momento in cui molte imprese private hanno difficoltà a competere con le proprie controparti pubbliche. In un rapporto congiunto pubblicato nel 2012 con il titolo ‘La Cina nel 2030: Costruire una società ad alto reddito moderna, armoniosa e creativa’, la Banca Mondiale e il Centro di Ricerche sullo Sviluppo del Consiglio degli Affari di Stato (Guowuyuan fazhan yanjiu zhongxin 展研究中心) hanno consigliato ulteriori riforme di mercato per le imprese statali cinesi a garanzia del mantenimento un tasso di crescita economico adeguato per i prossimi due decenni. Pochi mesi prima, un rapporto dell’Istituto Economico Unirule (Tianze jingji yanjiusuo 天则经济研究所), un organismo non governativo cinese diretto dal noto economista Mao Yushi 茅于 richiedeva l’uscita delle imprese statali da settori redditizi e competitivi.

Negli anni, le critiche alle imprese di Stato non sono mai venute meno. Secondo i critici cinesi, esse sono monopolistiche, inefficienti, corrotte e un ingombro al funzionamento razionale dell’economia di mercato. Il dibattito sull’‘avanzamento dello Stato e il ritiro del privato’ (guojin mintui 国进民退) non è niente di nuovo in Cina, ma sta assumendo toni sempre più urgenti. Questo accade non solo perché il settore statale sta crescendo rapidamente, ma anche perché sezioni del privato stanno incontrando serie difficoltà. Internazionalmente, il settore statale cinese sembra più sicuro di se stesso e meglio capitalizzato che mai e questo avviene proprio nel momento in cui le economie liberali occidentali stanno soffrendo a causa di una recessione prolungata. Inoltre, le imprese di Stato cinesi ora stanno investendo in paesi ed aree tradizionalmente nella sfera d’influenza occidentale, entrando in competizione diretta con aziende multinazionali americane ed europee.

Comunque sia, almeno sul breve termine è improbabile che lo Stato cinese tiri il freno al settore statale, soprattutto in questo periodo in cui il settore destinato alle esportazioni è in declino. Altrettanto poco probabile è che le autorità siano disposte ad amputare un braccio che si è rivelato così utile nel riaggiustare e stabilizzare l’economia cinese in un ambiente economico globale sempre più volatile. Il settore statale cinese sembra dunque destinato a giocare un ruolo sempre più prominente nell’economia.

 

(traduzione di I. Franceschini)

 

 

 

 

 


 

 

 

Category: Osservatorio Cina

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