Marco Dalpane: La Musica da Frank Zappa a John Cage

| 23 Aprile 2014 | Comments (0)

 

 

 

Marco Dalpane è un pianista e compositore bolognese. Scrive ed esegue dal vivo musica per il cinema muto. Negli ultimi cinque anni ha lavorato principalmente sui film di Buster Keaton con il quintetto Musica nel buio. Appassionato delle musiche di Frank Zappa e di John Cage ha promosso a Bologna la nascita di una nuova etichetta discografica A Simple Lunch (www.asimplelunch.com) che ha già realizzato sei dischi tra i quali Brother Buster. Music for Buster Keaton con Marco Dalpane al piano e Angelo Adamo all’armonica di cui viene riprodotta la copertina:

 

 


Per  “Inchiesta” è stato intervistato da Roberto Dall’Olio. Prima di leggere questa intervista si invita all’ascolto di una sua composizione per The General di Buster Keaton con il quintetto Musica nel buio (2010) e della esecuzione  della Frank Zappa Suite (2013)

 

 

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D. Incontriamo Marco Dalpane, pianista e compositore bolognese …… tu sei un eclettico : è ed è stata una scelta o un destino?

R. Il mondo della musica è così vasto che per attraversarlo occorre dotarsi di molti mezzi. I linguaggi con cui la musica si esprime non sono più esclusivi, ma tendono a fondersi, a incrociarsi, a scambiarsi tecniche e prassi. La pratica dell’improvvisazione, accantonata da ormai un secolo e mezzo nell’ambito della musica colta, oggi nuovamente trova considerazione anche in questo contesto. Mentre nel jazz, nel rock e nelle musiche di tutto il resto del mondo è sempre stata un formidabile mezzo di espressione e di ricerca.

Poi i suoni della musica sono cambiati; gli strumenti elettrici ed elettronici hanno modificato per sempre il nostro universo acustico, non possiamo non farci i conti. In più un dato strettamente personale: la pratica quotidiana di musicista mi ha posto di fronte alla necessità di suonare uno strumento, di comporre e improvvisare, di dirigere un ensemble. La molteplicità di competenze che richiede un’attività di questo tipo ha sicuramente influenzato il mio modo di stare dentro la musica.

 

D. Perchè Frank Zappa?

Perché Zappa è una figura centrale. In molti sensi. Come molti della mia generazione sono cresciuto col rock oltre che con la musica classica del passato e con quella che negli anni ’60 e ’70 veniva definita “avanguardia”. Zappa ha tenuto insieme fin dagli esordi tutto questo. I suoi primi dischi sono un formidabile concentrato di riferimenti stilistici, dal rock alla musica sinfonica, dal collage di suoni concreti al jazz e molto di più. Il suo atteggiamento nei confronti dell’industria musicale e delle accademie è poi straordinariamente attuale. Un atteggiamento polemico che lo ha portato a fare scelte molto difficili e penalizzanti pur di mantenere la propria libertà.

La sua musica è un esempio di vitalità e intelligenza. Cose che in questo momento particolare hanno un gran bisogno di essere rimesse al centro della vita di tutti noi, alle prese con una fase storica decisamente depressiva, sia dal punto di vista economico che da quello psico-sociale. I suoi atteggiamenti cinici e provocatori sono stati necessari per arrivare a raccontare senza schermi e ipocrisie la realtà in cui ha vissuto. In lui hanno sempre convissuto uno sguardo lucido e disincantato sul mondo e insieme il pensiero utopico. Due tratti oggi non comuni, e di cui invece abbiamo molto bisogno.


D. Perchè Cage?

R. Cage ha molto scombinato le carte. Ha portato nella musica tante cose che erano nell’aria. Lo ha fatto con leggerezza ma con rigore, ribaltando ogni idea acquisita grazie a uno spirito straordinariamente acuto e aperto. Ha evitato di confrontarsi con la sua volontà e i suoi desideri per scegliere la modalità della non-esclusione. Alla base di questo pensiero certo c’è un’idealità di tipo filosofico, o sociale, che però ha permesso di rimettere in discussione il modo in cui la musica si è tradizionalmente espressa. In più Cage ci ha insegnato ad avvicinare i suoni senza pregiudizi, e senza cercare di attribuire loro significati ulteriori rispetto alla loro realtà. Un atteggiamento poco comprensibile per la cultura europea credo, ma che ha dato il via a molte novità. Certo l’influenza dello zen è stata decisiva, ma Cage è stato alla fine un musicista, per quanto niente affatto propenso a seguire la strada prevista dalla tradizione.

La sua opera risulta spesso indecifrabile sia utilizzando gli strumenti abituali della musicologia (l’analisi della partitura in primis) che affidandosi al semplice dato acustico. Occorre conoscere le domande e le questioni che Cage si è posto, l’intelligenza e la lucidità delle sue considerazioni, per capire che la sua è l’opera di un musicista di genio e non quella di un filosofo stravagante.

 

D. Perché la musica cosiddetta colta non viene ascoltata da alcuni ceti sociali?

R. La musica cosiddetta colta vive in un ghetto nel quale si è rinchiusa con le proprie mani. E potrei fermarmi qui.

Ma provo a spiegarmi. Dovremo cominciare dal provare a definire o a ridefinire il termine “colto”. La cultura musicale europea ha perso appeal. E questo è accaduto ormai da un secolo. Agli inizi del Novecento, e anche un po’ prima, in Occidente parecchie certezze sono crollate: la psicanalisi ci ha fatto scoprire che quello che chiamiamo “io” non è che la punta di un iceberg; Darwin ha dimostrato il nostro legame biologico con una natura dove tutto è evoluzione e niente è nato così come lo vediamo oggi; con la morte di Dio e della metafisica non ci sono più assoluti che governano le nostre vite.

Anche la musica ha perso i suoi baricentri e le sue certezze, e i musicisti, come tutti gli artisti hanno svolto un nuovo ruolo nella società. Hanno testimoniato un’individualità spesso in conflitto con l’ambiente. E questo ha prodotto una frattura fra il mondo dell’arte, gli artisti, e il pubblico. Per molto tempo nel secolo scorso il compito primario dell’espressione artistica è stato quello di produrre il “nuovo”. Un po’ come accade nel meccanismo industriale. L’artista era chiamato a stupire, provocare, negare ogni tradizione, cercare costantemente la novità. Giuseppe Chiari negli anni ’70 diceva: “Ci constringono a fare cose sempre più strane”. Aveva capito tutto quasi cinquant’anni fa. Oggi ancora questo atteggiamento è diffuso, ma appare sempre più per quello che è, il segno dell’incapacità di metterci in rapporto con la nostra storia, quindi con la nostra condizione. La musica moderna vive in un ghetto, o meglio “le musiche” che si autoproclamano “contemporanee” vivono spesso relegate in riserve indiane. Prevale l’illusione della tabula rasa, della rifondazione da zero, del gesto estremo. In realtà si continuano ad abbattere muri che sono stati demoliti da alcuni decenni. E ciò che è accaduto in modo salutare e ormai ampiamente storicizzato, oggi si ripete come tic, come inutile e infantile gesto elitario e snob.

Ma perché la musica rispetto alle altre arti fatica oggi di più a essere presa in considerazione dal pubblico? Possiamo chiederci perché a differenza delle arti visive la musica sia scomparsa anche dal dibattito culturale. I motivi sono molteplici; provo a indicarne alcuni. Il primo è che la musica in quanto oggetto è davvero difficile da identificare (la partitura, il disco, l’esecuzione dal vivo, quale di questi?) e in ogni caso ha perso qualsiasi valore economico. Conseguenza: nessun prezzo uguale nessun valore. Possiamo ascoltare gratuitamente qualsiasi musica in qualsiasi momento, quindi tutto ha perso valore. La pratica sociale della musica sopravvive in certi riti giovanili o in stanche e consunte ritualità di un certo mondo musicale istituzionalizzato. Ma la vitalità della pratica sociale della musica sembra perduta. I musicisti che non si assoggettano alle regole di un’industria culturale totalmente asservita al facile consumo e alla visibilità mediatica sono tagliati fuori.

Poi un’altra ragione, ancora più strutturale. La nostra è una società fortemente incentrata sul valore del danaro: ecco perché migliaia di persone sono disposte ad affrontare attese di ore sotto la pioggia per poter vedere una tela suprematista o un’opera concettuale. Certamente anche perché sanno che il mercato assegna a queste opere quotazioni strabilianti. C’è chi sostiene che la prossima bolla a scoppiare sarà quella del mercato dell’arte, prima ancora di quella dei titoli legati ai social network.

Ancora una causa della difficoltà che oggi la musica incontra rispetto ad altre espressioni artistiche: in dieci minuti possiamo vedere decine di opere visive, chiunque abbia frequentato un museo conosce il fluire delle comitive di turisti nelle sale. La musica invece richiede tempo, richiede venga fatta una esperienza. E questo rappresenta uno scoglio.

Quanto tempo serve per attraversare le sale di un museo che espone i monocromi di Rothko? Lo decidiamo noi stessi, un minuto può bastare.

Mentre i 27 minuti e 19 di secondi di Schwankungen am Rand di Lachenmann possono risultare un territorio inesplorato dove avventurarsi alla ricerca di mondi sonori, ma più probabilmente un intollerabile viaggio in un abisso privo di senso.

Provo a cercare un altro possibile motivo per spiegare la difficoltà che certa musica (il termine “colto” mi sembra davvero non più utilizzabile) incontra. È evidente che in Italia la spartizione degli studi musicali rispetto a quelli umanistici (vedi la totale assenza della musica nel curriculum scolastico delle discipline umanistiche, ad eccezione del DAMS) non ha favorito l’integrazione delle conoscenze. La situazione dell’educazione musicale nella scuola dell’obbigo poi è spaventosa. Difficile trovare un ragazzo di 14 anni che abbia sentito un violino suonare dal vivo. Figuriamoci un’orchestra sinfonica. L’educazione musicale si risolve per lo più in una pratica di sconcertante banalità. Si imparano a suonare semplici melodie su strumenti di pessima qualità, oppure si studia la “storia” della musica. Come se a un bambino che ancora non parla si volesse insegnare la storia della letteratura o si cercasse di fargli recitare un passo da un dramma teatrale. Per avvicinare i bambini e i ragazzi alla musica bisogna metterli in contatto con l’esperienza musicale. Suonare “Fratelli d’Italia” sul flauto dolce non è musica, fare una ricerca sul Simbolismo in Debussy non è musica, cantare le canzoni di De Andrè non è fare musica. Considero Fratelli d’Italia un bellissimo inno nazionale, Debussy un genio assoluto e De Andrè un autentico poeta, ma per avvicinare i ragazzi alla musica occorre permettere loro l’incontro con i musicisti, e quindi con la musica viva.

 

D.Cosa può dire e dare la musica e la tua musica in questi tempi dolorosamente critici?

La musica funziona a molti livelli. Al livello più alto costruisce mondi dotati di proprie regole, o meglio di propri codici. Insegna quindi ad assumersi responsabilità e a creare pensiero. All’ascoltatore invece la musica fa continuamente delle promesse. Quando ascoltiamo la musica sentiamo almeno per un po’ che un altro mondo è possibile. Quindi la musica ha un potere enorme. Può essere una medicina. Ma è meglio sia un cibo piuttosto che una medicina.

 

D. Io credo che in Italia genericamente ci sia un disprezzo per l’arte che non sia già inserita nell’industria dello spettacolo. Vuoi parlarne

R. Ho già detto qualcosa a questo riguardo. Evidentemente oggi tutto sembra dominato dal danaro, in un modo più pervasivo e soffocante di quanto sia mai successo in passato. Siamo tutti molto indaffarati a cercare una soluzione immediata e pratica per le superare le nostre difficoltà, soprattutto in questo momento della storia. E chi ha mezzi e possibilità spesso disprezza ogni forma complessa di pensiero perché il confronto con essa mette in dubbio la solida ed elementare realtà su cui poggiano le proprie certezze. Sono le contraddizioni della cultura di massa. Se la massa non si accultura dove si và? Poi ci sono i compartimenti stagni in cui vivono le istituzioni. A ognuno il proprio ghetto, come dicevo prima. Il contrario di quello che servirebbe per rivitalizzare i cartelloni e le proposte. Ma questo metterebbe in discussione un sistema che non ha alcun interesse a modificare l’assetto attuale. E quando cerca di farlo lo fa con grande lentezza e colpevole ritardo. Le cose si muovono rapidamente, non si possono semplicemente intercettare, bisogna essere là dove accadono. È per questo che le orchestre multietniche o le contaminazioni tra world music e le tendenze più innovative della musica elettronica nascono nelle periferie di Londra o a Berlino piuttosto che nelle città italiane. Come in altri settori della vita pubblica anche nella sfera dell’attività musicale servirebbe poi una maggiore democrazia e trasparenza. Ricambio, innovazione, riqualificazione e verifica degli obiettivi, valorizzazione delle competenze. In ogni caso continuo a pensare che fino a quando non ci sarà un’educazione di base degna di questo nome le cose non potranno che peggiorare.

So che sto per dire una cosa che non piacerà a molti, ma la provocazione di Baricco contenuta nell’articolo “Basta soldi al teatro meglio puntare su scuola e tv” centrava nel segno.

Quella che tu chiami “industria dello spettacolo” ha prodotto, senza l’intervento di danaro pubblico, un’enorme rivoluzione, che ha aperto le porte a grandi masse di persone fino a quel momento escluse. In modo contraddittorio naturalmente. Internet ha poi definitivamente cancellato privilegi e barriere. Quello che occorre adesso è pensare alla crescita culturale dei cittadini, vero elemento su cui le democrazie fondano la loro stabilità. Quindi per favorire tutti coloro che, per motivi economici, culturali e sociali, non hanno facilità di accesso alla rivoluzione della modernità, è meglio investire sulla scuola e sulla TV (ad esempio portando una rubrica di informazione libraria in prima serata) piuttosto che avvantaggiare chi è già privilegiato. Sbagliato sostenere con danaro pubblico teatri, festival e tutte quella realtà dove l’intervento dello Stato è determinante. Senza contare che ovunque lo Stato interviene in modo così decisivo si creano situazioni di monopolio che desertificano e mortificano il territorio circostante. Gli esempi non mancano.

So che è un ragionamento rischioso quello di Baricco ma ha introdotto questioni scottanti in un dibattito dove quello che più conta sembra essere la difesa delle posizioni acquisite.

Torniamo per un attimo alla musica e pensiamo alla situazione negli USA; nessun intervento statale, grande diffusione dell’attività musicale nelle università (private), nei luoghi di spettacolo e nella vita sociale. Eppure è da lì che viene la maggior parte di quello che ascoltiamo oggi, che ne siamo consapevoli o no.

 

D. La politica nell’arte è come un colpo di pistola in un concerto- disse Stendhal – cosa ne pensi?

R. So che quello che sto per dire suona irrimediabilmente antiquato. Ogni nostro atto è politico, perché ci mette in relazione con gli altri. Possiamo scegliere di essere onesti, sinceri, gentili e disponibili, oppure opportunisti e spietati, o furbi. Quindi in questo senso è bene essere consapevoli che quello che facciamo si riflette nella vita intorno a noi. E agire di conseguenza, cercando di creare le condizioni per una vita migliore. Cage in questo è stato un grande maestro. Poi c’è la “politica”, che oggi sembra aver smarrito la sua funzione e il suo significato. Ma questa politica influisce (spesso decide) su molti aspetti della realtà produttiva e materiale delle nostre attività, anche di quella musicale. E dovremmo imparare a farci i conti.

Per il resto non ho mai apprezzato la musica che diventa un proclama, un manifesto. Ma dalla realtà dei suoni emerge sempre un modo di essere nel mondo, o un modo per immaginarlo diverso, se ancora ci riusciamo.

A questo punto della nostra chiacchierata vorrei essere molto sintetico: ho cominciato a suonare da bambino, per caso. C’era un pianoforte in casa e io non ero sordo. La passione vera è arrivata da adolescente. I Beatles, insieme a Beethoven e a Stockhausen, come molti della mia generazione. Stavano tutti insieme, senza darsi fastidio, anzi (anche per il giovane Zappa il rhythm & blues e Edgar Varèse stavano fianco a fianco). Ecco perché sono eclettico, per dare un’altra risposta alla tua prima domanda.

 

D. Quali prospettive ti poni davanti?

R. Nessuna, oggi non ci sono prospettive. C’è solo la pratica quotidiana. Da cui nascono cose che forse un giorno potranno vivere. Adesso sono impegnato come produttore di un’etichetta discografica, a simple lunch, con la quale pubblico lavori che l’industria musicale non prende in considerazione e che invece meritano di essere conosciuti. Lavori nati in condizioni spesso mortificanti per gli artisti ma che nonostante questo esprimono una grande vitalità. Poi come pianista e compositore sono impegnato sulla musica di Zappa e di altri, sul cinema di Buster Keaton (con cui mi confronto da molti anni), e continuo a scrivere, non a getto continuo, a fasi alterne di assimilazione e slancio. Perdonami una conclusione fin troppo definitiva e perentoria, citando Samuel Beckett: “La speranza non è che un ciarlatano che non smette di imbrogliarci; e, per me, io ho cominciato a star bene solo quando l’ho persa. Metterei volentieri sulla porta del paradiso il verso che Dante ha messo su quella dell’inferno: Lasciate ogni speranza ecc.”.

 

D. Hai mai suonato in una fabbrica o in un luogo di lavoro?

R. È un sogno, un’idea che ho da sempre e mi fa molto piacere che tu mi abbia fatto questa domanda. Il mio lavoro assomiglia molto a quello di un operaio, forse meglio a quello di un artigiano. Mi piacerebbe molto suonare in un’officina, in una fabbrica, in un laboratorio artigianale. Ma non alla sera, quando tutti sono già andati a casa e dovrebbero ritornare, magari dopo essersi lavati e aver fatto una doccia. Vorrei andare lì alle 8 di mattina, lavorare fino alle 13, mangiare insieme agli altri che ci lavorano, poi raccontargli quello che ho fatto quella mattina e farglielo ascoltare. 10 minuti, non di più. Penso che imparerei molte cose.

 

 

Category: Arte e Poesia, Musica, cinema, teatro, Video

About Roberto Dall'Olio: Roberto Dall'Olio (1965) è attualmente Assessore all'intercultura, valorizzazione dei beni culturali e sport del Comune di Bentivoglio (Bologna). È membro del direttivo bolognese dell'Anpi. Poeta e autore dal forte impegno civile, insegna Storia e Filosofia al Liceo Classico "Ariosto" di Ferrara. Ha vinto il concorso nazionale di poesia va pensiero a Soragna (Parma).Tra le sue pubblicazioni: Entro il limite. La resistenza mite in Alex Langer (La Meridiana, 2000); Per questo sono rinato (Pendragon, 2005); La storia insegna (Pendragon, 2007); Il minuto di silenzio (Edizioni del Leone, 2008), La morte vita (Edizioni del Leone, 2010).

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