Bruno Amoroso, Jianshu Chen: Clima e ambiente. Il ruolo della Cina

| 30 Dicembre 2009 | Comments (0)

 

 

 

Questo articolo di Amoroso e Chen, del Centro studi Federico Caffè dell’Università di Roskilde (DK) è stato pubblicato in “Inchiesta” 166, ottobre.dicembre 2009 pp. 77-82


Il tema dell’ambiente e del cambiamento climatico, già da tempo al centro del dibattito e dell’attenzione dei governi a causa dell’accentuarsi di fenomeni meteorologici e climatici fuori norma, ha ricevuto rinnovata attenzione nel corso della preparazione e poi della Conferenza sul clima di Copenaghen di dicembre 2009. Abbiamo quindi a disposizione un vasto materiale che consente di fare lo stato della situazione, sia riguardo ai problemi che si pongono sia ai programmi e alle politiche per farvi fronte.

Il tema è qui illustrato e discusso partendo dalle informazioni che sono emerse nella fase di preparazione e nel corso del summit, dal modo in cui si sono riflesse nelle posizioni espresse dai paesi e attori sociali partecipanti, e del ruolo che su questo tema sta svolgendo la Cina. La distinzione di questi vari ambiti di osservazione è necessaria poiché tutti concorrono alla formazione di un quadro della situazione che non voglia restare succube della retorica che necessariamente accompagna questi eventi, dettata da strategie e scelte politiche dei singoli governi e attori partecipanti che spesso vanno oltre il tema di cui si discute.

 

Ambiente e industria

 

La fase preparatoria della Conferenza è di certo quella che ha offerto maggiori informazioni ed espresso posizioni più interessanti e attendibili. L’incontro politico di dicembre, la XV Conferenza mondiale sui cambiamenti climatici (COPIS15), è stato preceduto dalla pubblicazione di alcuni documenti elaborati da organismi creati dalle Nazioni Unite o dai governi nazionali che hanno posto le basi per il dibattito successivo,1 da incontri bilaterali e intergovernativi a vari livelli tra i quali quello tra Barack Obama e il presidente cinese Hu Jintao al termine della sua visita a Beijing nel novembre 2009, e da vari vertici tra i quali quello del mondo dell’industria e degli affari. Partiamo da quest’ultimo, il World Business Summit, svoltosi a Copenaghen nel maggio 2009. Un incontro dal quale si può dedurre l’attenzione positiva e la disponibilità di una parte del mondo degli affari e dell’industria le cui motivazioni sono contenute nella sintesi fornita da alcuni delegati: il tema climatico e ambientale interessa l’industria perché consente di fare forti risparmi, apporta capitali e finanziamenti pubblici e, infine, offre alle imprese una visibilità positiva.

Un approccio pragmatico rispettabile e di tutto rilievo che ha alla sua base non solo aspettative positive verso le politiche dei rispettivi governi, ma la constatazione di quanto già si è fatto e si sta facendo nei vari paesi. Le industrie presenti a Copenaghen erano soprattutto quelle già presenti ed impegnate nella produzione delle fonti di energia alternativa e nel risparmio energetico. Ma non mancavano quelle che avvertono la possibilità di un cambio di indirizzi politici che consenta alle imprese di essere presenti al momento giusto nei nuovi settori tecnologici dell’energia e della produzione di veicoli a trazione elettrica.

Un punto di vista interessante perché in parte discordante da quello prevalente tra gli economisti più scettici sulla convenienza dell’industria a fare investimenti in questi settori. La menzione degli effetti positivi di lungo periodo, o per le future generazioni, non trova molto credito tra gli economisti sia per l’incertezza dei futuri benefici sia per la certezza dei costi che nel frattempo sono sostenuti. Ma più in generale nel discorso economico la tesi più diffusa non è certo quella di J. M. Keynes, preoccupato delle “possibilità economiche dei nostri nipoti”, ma quella di Frank Ramsey che, contrapponendosi al primo, affermò che: “il piacere futuro rispetto a quello immediato …è eticamente indifendibile e nasce solo da debolezza di immaginazione”.

A questa ultima posizione sembra attenersi la grande industria, di fatto assente dal summit delle imprese a Copenaghen. Sia BP che Shell, insieme ad altre grandi imprese del settore energetico, si stanno allontanando dai piccoli passi che avevano intrapreso. Lo conferma il crollo degli investimenti nel settore delle energie pulite nel corso del 2008 e la debole ripresa del 2009 bloccata dalla crisi creditizia. Il vantaggio sociale che deriva dalle energie rinnovabili, per il loro basso livello di inquinamento e il loro basso costo di gestione, ha a fronte la richiesta di forti investimenti iniziali. Nella logica industriale e finanziaria il livello di inquinamento non è un costo mentre lo è il prezzo del denaro. Tuttora il costo di produzione dei combustibili fossili è molto basso e non richiede forti investimenti e l’inquinamento non è a carico delle imprese. Nei casi migliori lo Stato interviene a posteriori riversando sui cittadini i costi dello “smaltimento”, lasciando così intatte sia le motivazioni sia il meccanismo che li genera, anzi intensivandoli. Se così stanno le cose, come sostiene The Economist nel numero qui richiamato, dobbiamo riconoscere vera la tesi degli scettici sugli effetti della tanto reclamizzata “Responsabilità Sociale dell’Impresa” che è servita più da belletto e da alibi che a produrre un più elevato livello culturale ed etico delle grandi imprese. L’onda verde del consumo (consumatori) non ha assunto una consistenza tale da premiare le imprese che scelgano la strada virtuosa in campo ambientale e energetico o da costringere i governi ad intervenire. Lo sviluppo dell’industria “verde” in vari paesi (soprattutto nel campo delle fonti rinnovabili di energia come il solare e l’eolico) è certamente interessante, ma resta tuttavia minoritario all’interno delle “business community”. Minoritario non solo e non tanto in termini di produzione e occupazione quanto in termini di potere.

 

Ambiente e governi

 

Il decennio trascorso e gli anni più recenti consentono di richiamare e valutare una serie di interventi e misure prese dai governi in favore dell’ambiente. Il bilancio tracciato dal The Economist alla vigilia della Conferenza di Copenaghen conclude che: “Politiche efficaci, efficienti e politicamente accettabili si sono dimostrate elusive dappertutto”2 Questa è una valutazione certamente giusta per i paesi industrializzati e i maggiori tra questi, ma che trova oggi fortunatamente una grande eccezione al di fuori di questi nella Cina. Tuttavia, poiché sforzi sono stati compiuti in vari paesi e varie direzioni, è utile richiamarli per capire poi le possibilità ed i limiti della situazione attuale.

Gli Stati Uniti, sono e restano nelle proiezioni al 2030 lo Stato a più alto inquinamento procapite del mondo (emissioni di CO2) insieme all’Australia, seguiti dalla Russia, Giappone, Europa e poi Cina, India e Brasile a livelli inferiori. Un nuovo corso è stato avviato con la presidenza Obama, partendo praticamente da zero poiché l’amministrazione di George Bush era “negazionista” riguardo ai cambiamenti climatici, tesi queste presenti anche in Europa. Le ultime misure di stimolo dell’economia successive alla crisi finanziaria destinano un decimo dell’importo totale (di 787 miliardi di dollari) al settore dell’energia. La cifra più alta sinora dedicata e che dovrebbe essere seguita anche da una riduzione dei sussidi statali tuttora in vigore per i carburanti fossili. Alla base di queste e altre misure previste nell’American Clean Energy and Security Act in corso di approvazione al Senato c’è la riduzione delle emissioni di CO2, in modo graduale dal 2012 al 2050, l’aumento delle energie rinnovabili al 20 % dell’energia totale prodotta, un forte impegno finanziario per il risparmio energetico e i veicoli elettrici. Misure queste ultime che gli osservatori attribuiscono alla pressione esercitata dall’industria statunitense sul governo per le preoccupazioni suscitate dalla forte avanzata in questi settori della Cina, che sta assumendo un ruolo di leadership mondiale nel campo della ricerca e della produzione delle tecnologie “pulite”.

Di questi movimenti in atto ne dà prova anche la dichiarazione comune emessa da Barack Obama e il presidente cinese Hu Jintao al termine della sua visita a Beijing nel novembre 2009. Si tratta di una dichiarazione che è particolarmente dettagliata nel capitolo dedicato ai cambiamenti climatici, energia e ambiente. Contiene un piano di cooperazione decennale, un piano di azione bilaterale per l’efficienza energetica, l’istituzione di centri comuni di ricerca, piani di cooperazione per lo sviluppo di auto elettriche, piani per tecnologie necessarie allo sfruttamento del carbone, una partnership per forme di energia sostenibile come l’eolica, il solare, bio….e molto altro. Rapporti strettissimi quindi ma dei quali non si trova traccia poi negli eventi manifestatisi sul palcoscenico della Conferenza di Copenaghen. Ma su questo a tra poco.

Sull’Unione Europea non c’è molto da dire se non che questa resta la somma di quanto fanno i governi nazionali, male e in modo scoordinato. Inoltre, come nel caso degli Stati Uniti, le conseguenze economiche e sociali della cosiddetta “crisi” finanziaria bloccano le innovazioni necessarie e ci si piega ad una difesa dei settori produttivi inquinanti (l’auto ad es.) per evitare le conseguenze sociali della disoccupazione. Paradossalmente, pur essendo l’Europa uno dei grandi inquinatori come gli Stati Uniti, gode della simpatia delle organizzazioni della “società civile” che ne hanno definito il non-ruolo svolto a Copenaghen come “virtuoso”. Per queste ragioni sia gli Stati Uniti che la Cina si muovono in modo unilaterale e bilaterale, scavalcando l’Europa che non appare in questa fase un partner interessante.

Entriamo quindi nel discorso sulla Cina. I suoi vantaggi comparati risiedono sia nella dinamica della sua economia – che bilancia in modo magistrale tutti gli strumenti a disposizione di una economia pianificata con quelli di una economia di mercato, gestiti da istituzioni ad orientamento e pratica socialista del potere – sia in quella della politica e delle istituzioni non soggette alla competitività e spesso arrivismo-affarismo politico ed economico delle forme democratiche dell’Occidente. Il livello di quello che noi in Occidente chiamiamo democrazia, un sistema di contrappesi istituzionali formali di fatto dipendenti da gruppi di potere esterni e occulti, è misurato in Cina dal livello di consenso sociale espresso dai cittadini che si riflette immediatamente sulle istituzioni e gli organi del potere. Quindi non una partecipazione stimolo della democrazia ma di una partecipazione che è la democrazia e che si confronta direttamente con il potere. Una sistema di pianificazione dell’intero sistema economico e sociale che contribuisce a rendere trasparenti vincoli, oneri e responsabilità.

Due sono i grandi cambiamenti in atto, previsti e programmati, che devono accompagnare la continuazione di una crescita economica che ha sollevato dalla povertà, e continua a farlo, milioni di persone e che danno contenuto al piano di modernizzazione di cui parlano spesso i dirigenti cinesi: il primo riguarda la politica cinese per l’ambiente e il cambiamento climatico; il secondo l’introduzione in Cina di un sistema di welfare confrontabile con le forme europee di welfare scandivano. Del secondo non ci occupiamo in questo articolo. Sul primo l’interesse è pertinente. Alla vigilia della Conferenza di Copenaghen la Cina ha annunciato la riduzione delle sue emissioni di CO2 del 40-45% rispetto al PNL entro il 2020. L’obiezione posta e che ai tassi di crescita dell’economia in corso in Cina l’effetto totale sarà inferiore a quello sperato. Strana obiezione che trasforma una virtù, la capacità di sviluppo della propria economia tuttora in condizioni di arretratezza in molte zone del paese e settori, in un vizio. C’è un ragionamento matematico alla base di questa osservazione che tuttavia diviene un boomerang per l’Occidente super industrializzato. E’ evidente, infatti, che la soluzione al problema deve essere cercata mediante un riavvicinamento dei consumi e delle emissioni nocive procapite dei vari paesi dentro il tetto totale compatibile con gli obiettivi che ci si pone e di tollerabilità dell’ambiente.

Se si vuole pertanto sostenere la necessità della somma zero nella crescita delle emissioni dei gas-serra ci si deve muovere in direzione di un riequilibrio tra paesi di queste, il che pone per i decenni a venire un compito non indifferente per i paesi occidentali. Questo non significa rinunciare alla crescita, o decrescere, ma rendere le proprie forme di produzione e di consumo compatibili con gli obiettivi ambientali.

 

Il “compromesso ragionevole” proposto a Copenaghen

 

Il tentativo fatto in vista di Copenaghen è stato quello di evitare la percezione del rischio di collisione tra crescita economica e protezione ambientale, sia enfatizzando il ruolo delle tecnologie sia ponendo i problemi economici che questo pone su basi precise. Sul primo sono state scritte cose incoraggianti anche se con eccesso di ottimismo: “Il problema non è tecnologico. La razza umana è in possesso di tutti gli strumenti di cui abbisogna per continuare a beneficiare del tipo di vita di cui ha goduto finora senza per ciò causare un aumento netto delle emissioni di CO2 nell’atmosfera. I processi agricoli e industriali possono essere cambiati. L’elettricità può essere prodotta dal vento, dal sole, dalle biomasse o da reattori nucleari, e le auto possono alimentarsi con bio-carburante o elettricità. Motori per aerei alimentati con bio-carburante sono ancora in fase di elaborazione e ricerca ma dovrebbero presto essere a disposizione”.3

Il rischio a cui far fronte è stato valutato dall’IPCC in un incremento della temperatura del globo tra 1,1- 6,4 gradi durante questo secolo. Qualunque esito tra questi due dati avrebbe conseguenze disastrose. Il costo calcolato per rimanere al disotto del 2% corrisponde a circa l’1% del PNL mondiale. Salvare le banche dalla crisi è costato il 5% del PNL mondiale. Inoltre, osserva The Economist, si tratta di una cifra che qualunque cittadino pagherebbe come assicurazione contro rischi di questo tipo. Appare quindi paradossale che sul problema di come ripartire questi costi i paesi che di più hanno contribuito con le loro rivoluzioni industriali di 150 anni e le loro attuali emissioni a creare il problema pensino di poter bloccare la crescita degli altri paesi per mantenere gli equilibri. E’ stato anche ricordato che l’aumento del 20% delle emissioni di CO2 verificatosi successivamente alla firma del protocollo di Kyoto nel 1997 è dovuto oltre che al mancato impegno dei paesi ricchi nel raggiungimento degli obiettivi concordati anche al trasferimento dai paesi ricchi delle loro industrie inquinanti ai paesi emergenti ai quali oggi si attribuisce la responsabilità delle emissioni.

La richiesta avanzata dall’IPCC è che i paesi industrializzati riducano entro il 2020 le loro emissioni del 25-40% al di sotto del livello del 1990 se la temperatura deve restare al di sotto del 2% rispetto alla fase di reindustrializzazione. La somma degli impegni di riduzione dei paesi in questione per il 2020 non supera il 15% rispetto al 1990. Gli Stati Uniti offrirono il 4%, portato poi al 17% ma sulla base del 2007. Il contributo ai paesi emergenti per ridurre le loro emissioni in fase di crescita economica riguarda sia aiuti per gli investimenti necessari sia la rinuncia dell’Occidente alle norme di protezione sui diritti per l’uso delle proprie tecnologie. La Cina si è posta l’obiettivo del 40-45% entro il 2020 ma questo ha suscitato critiche degli Stati Uniti poiché, udite udite, quest’obiettivo rientrerebbe dentro le misure già avviate in Cina

 

Lo scontro tra politica ed economia sul clima

 

La Conferenza di Copenaghen ha rapidamente preso un indirizzo diverso da quello che ci si aspettava sulla base del materiale a disposizione. Sin dalle prime battute si è capito che ora entrava in gioco la politica, con lo scambio di battute e ricatti fatti in parte per l’opinione pubblica mondiale e in parte per evitare di legittimare un organismo internazionale sotto egida delle Nazione Unite. Il gioco americano è stato caratterizzato da una divisione di ruoli tra Hillary Clinton, nella veste del pubblico accusatore verso i paesi terzi e la Cina in particolare, più interessata a forme di controllo sugli altri paesi che a ciò che si doveva concordare; e Barack Obama più preoccupato delle reazioni che ogni suo gesto potesse provocare sul dibattito interno in un momento così cruciale per lui come la cosiddetta “riforma sanitaria” e per la forte opposizione presente nelle camere legislative per le misure sul clima già proposte. Ma anche un presidente che aveva sottoscritto pochi giorni prima accordi estesi di cooperazione con la Cina in campo ambientale e che avverte la pressione degli ambienti economici statunitensi preoccupati del sorpasso che la Cina ha fatto in materia di tecnologie nel settore del clima e dell’ambiente.

La Cina è arrivata alla Conferenza con forti impegni ma senza alcuna intenzione di sottostare a dictat di controllo o altro da parte degli Stati Uniti e Europa in particolare. I propri piani sul clima e ambiente sono ben noti, non dipendono dalle decisioni del mercato o degli investitori ma da decisioni prese a livello nazionale e rese pubbliche. Di fatto la Cina andrà certamente oltre gli obiettivi proposti. La messa in opera di reti di trasporto dell’energia elettrica e solare sono in corso su tutto il territorio cinese per collegare i grandi parchi di energia eolica impiantati nelle regioni più adatte e la produzione dei mini impianti disseminati su tutto il territorio e rifornire così sia le città sia il bisogno di energia delle regioni arretrate in occidente del paese. I piani di ricerca in questi settori sono ambiziosi e si servono anche della collaborazione con gli Stati Uniti. A questo si aggiunga la crescente collaborazione con i paesi dell’America latina e dell’Africa che va modificando l’impianto dei rapporti internazionali. Questo, ovviamente, produrrà effetti anche sul vecchio ordine mondiale come ha dimostrato il recente fallimento delle trattative sul commercio mondiale (Doha Round) e del quale la Conferenza di Copenaghen è ancora un riflesso.

I sistemi economici occidentali non si sono ancora ripresi dalla crisi economica e sociale provocata dai loro sistemi finanziari, la disoccupazione negli Stati Uniti ha raggiunto il 10%, i vecchi paesi industriali in Europa, ad eccezione della Germania non possiedono alcuna attrattiva, la Russia è stata assente a Copenaghen. Lo scontro tra Hillary Clinton e i rappresentanti cinesi rifletteva anche questa situazione per la quale la Cina è aperta alla collaborazione e rapporti internazionali ma difende il principio della sovranità e in questo modo ha assunto così anche il ruolo di riferimento dei paesi latinamericani e africani stanchi degli insulti ( i “paesi canaglia”) e delle pretese di controllo dell’Occidente.

 

Cambiare il metabolismo dei sistemi produttivi

 

I rischi del modo come si affronta il dibattito, anche se a volte con l’intento di renderlo più digeribile ai governi occidentali, è quello di minimizzare l’impegno necessario in termini economici e tecnologici. Uno di questi tentativi è quello di pensare di stimolare il ri-orientamento degli apparati produttivi mediante il semplice uso di un prezzo o tassa sulle emissioni o segmentando i problemi riducendoli a problemi tecnico-economici. Un tema caro soprattutto agli Stati Uniti e Gran Bretagna abituati a pensare l’agire umano secondo modelli di semplici fatti di mercato, che riducono sia i consumatori che gli imprenditori a robot elettronici reagenti automaticamente ai segnali dei prezzi, tasse, controlli.

Giustamente ambienti più prestigiosi hanno fatto rilevare che non esistono soluzioni uniche per tutti i problemi con i quali oggi ci si confronta. “Il sistema ha bisogno di essere reinventato e l’innovazione di sistema è la più difficile di tutte. Abbiamo bisogno di rinnovare il nostro metabolismo industriale”.4

Il clima è certamente una prova di come sono stati distrutti i commons e di come dovrebbe essere ricreato un comune sentire sul bene comune. Ma gli strumenti per far ciò somigliano più al bisogno di pianificazione, in atto in Cina, che alle ricette compromissorie tra finanza, tecnologia lobby del terzo settore in cerca di pubblicità e di un ruolo sui temi virtuali dei “diritti umani”.

La Cina si muove su questa strada e non per scelte tattiche ma perché ciò è parte della propria struttura. Lo scetticismo dei dirigenti cinesi verso i problemi climatici risale a non molti anni fa. Ma due fattori hanno influito nel modificare la sua percezione. La forte crescita economica che rende la Cina consapevole di essere parte del problema. Inoltre la rilevazione degli eventi climatici ha messo in luce durante l’ultimo decennio effetti negativi sul territorio cinese e per questo il tema è divenuto parte integrante del sistema nazionale di pianificazione. Il Piano nazionale sul cambiamento climatico stabilisce in dettaglio le forme di intervento previste per farvi fronte: ”promuovere uno sviluppo sostenibile, mediante un aggiustamento della struttura economica, il miglioramento dell’efficienza energetica, lo sviluppo e l’utilizzo dell’energia idrica e altre fonti rinnovali di energia, il rafforzamento delle costruzioni ecologiche e l’introduzione di politiche di pianificazione famigliare e misure per ridurre i cambiamenti climatici. Le centinaia di pagine del documento analizzano in dettaglio i fenomeni, le cause e le misure da realizzare quantificando e ponendo scadenze sul tutto.

Ne ha fornito una sintesi il discorso del primo ministro Wen Janbao alla Conferenza di Copenaghen, che ha contrapposto alle discussioni dei delegati occidentali sulle forme, il controllo e le sanzioni i dati su quanto la Cina sta facendo. I risultati raggiunti pongono il paese alla testa con il maggior risparmio energetico e riduzione delle emissioni del mondo. Dalla metà del 2009 il consumo energetico per unità di prodotto è stata ridotta del 13% rispetto al 2005, il che rappresenta una riduzione totale delle emissioni di CO2 di 800 milioni di tonnellate. Il tasso di crescita delle energie rinnovabili e nuove energie è il più alto del mondo. Nel periodo 2005 al 2008 le energie rinnovabili sono cresciute del 51%. La Cina ha anche una posizione di guida per quanto concerne l’installazione di energia idroelettrica, nucleare in costruzione, la copertura di pannelli di energia solare per il riscaldamento dell’acqua, fotovoltaica. Nel 2008 l’utilizzo delle energie rinnovabili è stato pari a 250 milioni di tonnellate di standard-carbone. Nelle campagne 30,5 milioni di famiglie utilizzano il biogas, il che corrisponde alla riduzione di emissione di CO2 di 49 milioni di tonnellate. La Cina ha la maggiore area mondiale di foreste piantate dall’uomo a seguito di una campagna lanciata per aumentare il deposito forestale di CO2 con 20,54 milioni di ettari durante gli ultimi 5 anni. Il volume delle foreste è aumentato di 1.123 miliardi di metri cubi. Oggi le foreste piantate dall’uomo ammontano a 54 milioni di ettari il che corrisponde al primo del mondo. La popolazione cinese è di 1,3 miliardi con un prodotto procapite di circa 3000 USD. Secondo le nazioni unite esistono in Cina 150 milioni di persone che vivono sotto la linea della povertà ed il miglioramento delle loro condizioni di vita costituisce per la Cina un obiettivo prioritario. Così come le politiche per il controllo della crescita della popolazione sono ben note. La Cina si confronta oggi con la crescita dell’industrializzazione e dell’urbanizzazione. Il carbone nel campo dell’energia è stato il fattore predominante che presenta difficoltà nella riduzione delle emissioni di CO2. Tuttavia il tema del cambiamento climatico è un obiettivo prioritario. Nel periodo 1990-2005 l’intensità delle emissioni di CO2 sul PIL è diminuita del 46% Sulla base di questa esperienza la Cina si è data un nuovo obiettivo di riduzione del 45% nel periodo 2006-2020. Una riduzione cosi consistente su un periodo cosi lungo richiede un grande sforzo di coordinamento. Questi obiettivi sono considerati vincolanti e incorporati in dettaglio dentro il medio e lungo periodo della piano nazionale il quale prevede forme di controllo e il monitoraggio affidati sia alle leggi sia ai mass media. Anche i temi del miglioramento della supervisione, della rilevazione statistica e della certificazione del controllo, insieme a quelli di migliorare l’informazione pubblica, e la trasparenza hanno ricevuto l’enfasi necessaria. A conclusione del suo discorso Wen Janbao ha sottolineato che La Cina raggiungerà questi obiettivi posti su propria scelta e non condizionandoli a quanto fanno altri paesi. Ha infine dichiarato la propria piena adesione alle convenzioni sul cambiamento climatico fissato in accordo con le linee delle Nazioni Unite ed agli accordi di Kyoto e di Parigi che rappresentano il duro lavoro svolto sin qui da tutti i paesi.

 

1 The Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC) delle Nazioni Unite; The Stern Review on the Economics of Climate Change richiesto dal governo inglese e pubblicato il 30 ottobre 2006.

2 The Economist. “Getting warmer. A special report on climate change and the carbon economy”. December 5th 2009, p. 12.

3 The Economist, “Getting warmer. A special report on climate change and the carbon econom”y. December 5th 2009, p. 4.

4 The Economist, o.c., “Future Dialogue”, pag 2.

 

Category: Ambiente, Osservatorio Cina

About Bruno Amoroso: Bruno Amoroso (1936) si è laureato in economia all'Università La Sapienza di Roma, sotto la guida di Federico Caffè. Negli anni dal 1970 al 1972 è stato ricercatore e docente all'Università di Copenhagen. Dal 1972 al 2007 ha insegnato all'Università di Roskilde, in Danimarca, dove ha ricoperto la cattedra Jean Monnet, presso la quale è professore emerito. Amoroso è docente all'International University di Hanoi, nel Vietnam. È stato visiting professor in vari atenei, tra cui l'Università della Calabria, la Sapienza di Roma, l'Atılım Üniversitesi di Ankara, l'Università di Bari. È presidente del Centro studi Federico Caffè dell'Università di Roskilde ed è condirettore della rivista italo-canadese Interculture. È membro del consiglio di amministrazione del FEMISE-Forum Euroméditerranéen des Instituts de Sciences Économiques, e coordinatore del comitato scientifico dell'italiana Fondazione per l'internazionalizzazione dell'impresa sociale (Italy). Fa parte, inoltre, del comitato scientifico FLARE Network (Freedom, Legality and Rights in Europe), la rete internazionale per la lotta alla criminalità e alla corruzione; è membro ed esperto di DIESIS (Bruxelles) organizzazione non profit dedicata allo sviluppo dell'economia sociale, nelle forme cooperative, di impresa sociale, e di impresa autogestita dai lavoratori, attraverso attività di supporto, consulenza e valutazione dei progetti. È decano della Facoltà di Mondiality, all'Università del Bene comune (Bruxelles-Roskilde-Roma), fondata da Riccardo Petrella; è membro del comitato scientifico del progetto WISE dell'Unione europea, ed è stato direttore del Progetto Mediterraneo promosso dal CNEL (1991–2001). Tra i suoi ultimi libri in italiano: Il "mezzogiorno" d'Europa. Il Sud Italia, la Germania dell'Est e la Polonia Orientale nel contesto europeo, (a cura di) (Diabasis, 2011); Euro in bilico (Castelvecchi, 2011); Per il bene comune. Dallo stato del benessere alla società del benessere (Diabasis, 2010); Il Mediterraneo: incontro di culture (con Mario Alcaro e Giuseppe Cacciatore), (Aracne, 2007); Persone e comunità. Gli attori del cambiamento, (con Sergio Gomez y Paloma) (Dedalo, 2007); La stanza rossa. Riflessioni scandinave di Federico Caffè (Città Aperta, 2004); Europa e Mediterraneo. Le sfide del futuro (Dedalo editore); L'apartheid globale. Globalizzazione, marginalizzazione economica, destabilizzazione politica (Edizioni Lavoro, 1999); Il pianeta unico. Processi di globalizzazione (con Noam Chomsky e Salvo Vaccaro) (Eleuthera, 1999).

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